giovedì 29 dicembre 2016

Sociologia e Sociosofia

di Daniele Iannotti (fratelli.iannotti@alice.it)

Francesco Giacomantonio, Sociologia e Sociosofia. Dinamiche della riflessione sociale contemporanea, Asterios, Trieste 2012

La preoccupazione dalla quale l'autore del testo prende le mosse consiste nel constatare l'attuale statuto problematico della disciplina sociologica; nell'introduzione del volume, infatti,  F. Giacomantonio ci ricorda il fatto che il peculiare oggetto di analisi di questa scienza, il collegamento con gli studi gemmatisi dalla filosofia ed il suo legame genetico e categoriale con quest'ultima, conferiscono alla riflessione sociologica la necessità costante di rivendicare una propria forma di autonomia. Il punto fondamentale si sposta perciò dall'oggetto di indagine al metodo in quanto «La sociologia è [...], la scienza segnata (consegnata al? Rassegnata al?) politeismo teoretico: in essa convivono e si confrontano continuamente paradigmi funzionalisti, strutturalisti e post-strutturalisti, marxisti», (p. 17) ecc. La questione, perciò, come ci rammenta l'autore, è la ricerca della piattaforma di senso sulla quale riflette la sociologia (cfr. p. 18).

venerdì 23 dicembre 2016

Antropologia e politica. Forme di convivenza

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; IV di 4)

3. Relazionalità tramite diversità

Quello precedentemente descritto è lo scenario storico-filosofico su cui si colloca l’odierno dibattito[1] fra Libertarians e Communitarians, dibattito che contiene un duplice pericolo nel quale ci si imbatte quando si affronta il tema della differenza culturale e identitaria: trascurare la differenza o mitizzarla.
Si può addirittura dire che oggi ci troviamo al cospetto di due vettori che spingono in direzioni contrarie e, apparentemente, inconciliabili ma che, paradossalmente, fungono l’uno da propellente per l’altro, poiché l’incremento di ciascuno di questi due processi sollecita, come risposta, la crescita dell’altro: la forza centripeta dell’omologazione universale e quella centrifuga della differenziazione. In altri termini, un processo omologante di de-territorializzazione versus un fenomeno diversificante di ri-territorializzazione, di ritorno alla comunità, alla piccola patria peculiare nelle sue differenze dalle altre. Anche l’abbattimento dei confini fisici e politici (emblematicamente rappresentato dall’apertura prima e dalla caduta poi del muro di Berlino, rispettivamente nel 1989 e nel 1990) viene assorbito in questa disputa, o come dimostrazione dei processi “deterritorializzanti”, o come stimolo dei fenomeni “riterritorializzanti”[2]. È fondamentale notare come tali dinamiche vengano spesso descritte con la formula dell’aut aut (dello scontro di civiltà a lá Huntington), anziché dell’et et, che ne coglie invece adeguatamente la natura[3]. Questo avviene quando la prospettiva di fondo è quella della (ri)costruzione di un’identità intesa come “monade monolitica”. Questa infatti si è sempre costituita tramite dinamiche di appartenenza, sociale, politica, economica, religiosa, etnica, territoriale, ecc, ma oggi tutte le categorie sotto la cui bandiera ci si affiliava sono erose dalla complessiva crisi dei tempi che abbatte i vecchi punti di riferimento, senza costituirne di nuovi. Non è affatto detto che questo sia un problema, poiché per tal via si è posti di fronte alla possibilità di rielaborare (mai definitivamente) i propri riferimenti e dunque assumere consapevolmente la propria identità; tuttavia, stante la difficoltà di questa operazione, che non è certo agevolata dalle varie istituzioni, ciò a cui si assiste è o la rinuncia al tentativo di definizione di un’identità o il radicalizzarsi di quest’ultima sotto una delle suddette bandiere, rifugiandovisi; quest’ultima operazione sfocia in una logica multiculturale che

finisce per cristallizzarsi in un sistema di differenze «blindate» che, a onta della conclamata «politica della differenza» (politics of difference), si atteggiano come identità in sedicesimo: monadi o autoconsistenze insulari interessate esclusivamente a tracciare confini netti di non-ingerenza. Come infrangere questa rigida clausola di non-ingerenza, che in apparenza estende ma in realtà stravolge l’idea di differenziazione rovesciandola in frammentazione e proliferazione meccanica della logica identitaria?[4].

giovedì 22 dicembre 2016

Antropologia e politica. Forme di convivenza

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; III di 4)

2. La moderna dimensione politica


Sulla scorta degli studi Jürgen Habermas possiamo osservare come la cosiddetta “opinione pubblica” nasca, nella modernità, nella sfera pubblica borghese che, differentemente da tutte le precedenti impostazioni sociali, affonda le proprie origini nella libera circolazione delle merci e delle notizie. Infatti, così come la libera circolazione di merci e notizie è un processo che non esclude potenzialmente nessuno, allo stesso modo la formazione dell’opinione pubblica in una società (quella borghese) basata su tale processo, non esclude potenzialmente nessuno (diversamente sia dall’Antica Grecia che dal mondo che va dall’Impero romano alla Rivoluzione francese, dove la sfera pubblica è accessibile, rispettivamente, solo ai cittadini maschi liberi e solo agli esponenti di determinati ceti). Tale libera circolazione di merci e notizie pone il peculiare nuovo problema della sua amministrazione, ma, se è da questa circolazione che sorge l’opinione pubblica, allora amministrare tale circolazione significa amministrare l’opinione pubblica stessa. Come organo di tale nuova operazione nasce un’amministrazione stabile, sottoforma di una attività statuale continuativa. Questo è, difatti, il ruolo del potere pubblico borghese, al punto tale che, nella modernità, il termine pubblico diviene sinonimo di statuale. Lo statuale rappresenta quindi il soggetto amministrante la circolazione delle merci e delle informazioni, ma dove tale circolazione è localizzata? In quale dimensione ha luogo? Nella società civile. Ecco perché, solo nella modernità «come pendant dell’autorità si costituisce la società civile […]. Nella trasformazione dell’economia tramandata dall’antichità in economia politica si riflettono i mutati rapporti»[1].
Avviene così quella dinamica (già descritta da Hannah Arendt in Vita activa)[2] in base alla quale un potere pubblico che amministra la società civile (intesa come la sfera dei privati), eleva a questione di pubblico interesse l’amministrazione, e con essa la riproduzione, della vita, portando quindi tale problematica al di là dei limiti della sfera domestica privata:

venerdì 9 dicembre 2016

Antropologia e politica. Forme di convivenza

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; II di 4)

1. La moderna immagine dell’uomo

Gnothi sauton, conosci te stesso. L’antico precetto delfico-socratico esprime quella forma di conoscenza indispensabile alla cura di sé (epimeleia heauton) la quale, a sua volta, è propedeutica all’esercizio di un pensiero critico e di una prassi etica che permettano agli uomini di prendersi cura di sé e relazionarsi armoniosamente fra di loro. Problematizzare la vita, la vita che siamo, risulta così essere l’imprescindibile punto di partenza per qualsiasi riflessione filosofico-politica, per non correre il rischio di modellare l’abitante sulle esigenze della casa, anziché edificare la casa a misura dell’abitante. La questione dell’humanitas assurge così a problema filosofico che, come emerge dallo scenario disegnato dall’antropologia filosofica moderna, rende evidente come l’uomo non sia una mera somma di animalitas e rationalitas, immaterialità e materialità, ma un complesso nodo di forze diverse[1].

lunedì 28 novembre 2016

Antropologia e politica. Forme di convivenza

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; I di 4)

Introduzione

Il presente lavoro non si pone come esaustivo degli argomenti trattati ma, al contrario, come un invito alla loro discussione, confidando che possa essere criticato da chi lo riterrà meritevole d’attenzione.
Troppo spesso le teorie filosofico-politiche relative alla creazione di una soddisfacente forma di convivenza fra gli uomini sono accomunate, pur nei loro enormi distinguo e nelle loro peculiarità, dall’essere attraversate da una duplice dicotomia che si pone come una frattura insanabile: quella tra le polarità individuo/collettività e particolare/universale.

sabato 26 novembre 2016

Appunti per una riflessione. Tra morale ed etica: l’io e l’altro

di Pietro paolo Piredda (pietropaolo.piredda@istruzione.it)

Nessun atto è neutro se messo in rapporto con l'umanità di chi lo compie e di chi lo vive e, di pari passo, con il concetto (ma non la concettualizzazione) che lo comprende e sottende. Nel momento in cui un atto, che possa dirsi significativo (non parlo di usare una forchetta piuttosto che un cucchiaio mentre si mangia), è posto in essere, ciascuno non è più solo se stesso, ma è se stesso moltiplicato all'infinito. Ciò ci permette di definire o giudicare qualsiasi atto come umano, inumano, disumano, anti-umano. E siamo nella dimensione negativa del rapporto.

giovedì 20 ottobre 2016

Terrorismo e disagio sociale

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il terrorismo è una piaga che l’Europa conosce da tanti anni. È stato ed è di diverse matrici e ha periodi di stallo e di improvvisa ripresa. Al momento stiamo vivendo un suo ritorno di fiamma che probabilmente ci accompagnerà per molto tempo, diventando una nota di cronaca della nostra quotidianità. 
Per avere una chance di superamento del tipo specifico di terrorismo col quale oggi abbiamo a che fare è evidentemente necessario comprenderlo nel dettaglio, ma per comprenderlo è preliminarmente necessario porsi nella giusta prospettiva, ovvero in una prospettiva non ideologica. 
A tal fine, credo sia superficiale etichettare il terrorismo come l’esito di una ideologia violenta. Pericolosamente superficiale, non solo perché questa definizione è talmente ampia da poter significare tutto e niente, ma soprattutto perché più che un tentativo di comprensione sembra un tentativo di esorcizzazione, ovvero di rimozione dal mondo occidentale di quei due elementi (l’ideologia e la violenza) che invece lo connotano a tutto tondo, attribuendoli a qualcun altro.
Naturalmente, mi riferisco qui al fatto che un’ideologia può essere basata non solo sulla religione; ferita che l’Europa ha già subito con il fondamentalismo cattolico delle crociate e dell’Inquisizione e le varie lotte in senso allo stesso mondo cattolico. Qualsiasi pensiero che parte da premesse inquestionabili, dogmi, è ideologia, e il ruolo del dogma può essere giocato tanto da un dio quanto dal capitalismo, dal consumismo o dalla tecnologia.      
Quindi, per cercare di vedere le cose da una prospettiva non ideologica è indispensabile partire dalla problematizzazione del nostro punto di vista, da come oggi, sempre più spesso, decifriamo i fenomeni. Possiamo provarci con degli esempi.
Se un siriano o un migrante o un arabo o un islamico compiono un attentato, si innalzano subito cori per cui tutti i siriani, tutti i migranti, tutti gli arabi, tutti gli islamici sono potenziali terroristi e vanno quindi respinti nel loro mondo di terrore e inciviltà. Se però un americano compie una strage, il che avviene con inquietante periodicità, gli stessi coristi di cui sopra tacciono, considerandolo solo un singolo individuo disturbato non rappresentativo di tutti gli americani, sarebbe quindi assurdo dire di volerli bloccare e respingere nel loro mondo. Perché questa differenza di trattamento? (Repetita iuvant: se si ricorre all’argomento secondo cui gli uni sarebbero preda di un’ideologia violenta e gli altri no, si ritorna semplicemente al problema dell’esorcizzazione di cui dicevo prima.)   
Un altro esempio, più circostanziato.

domenica 18 settembre 2016

Satira o marketing?

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Negli scorsi giorni è uscita una vignetta proposta come satirica sul terremoto nel centro Italia, pubblicata da un noto giornale francese che non cito, ritenendo quella vignetta non satira ma opinabile strategia di marketing (che se ne parli bene o male, purché se ne parli) e non volendo contribuire a tale strategia.
Vorrei però spendere alcune righe, che si aggiungo al polverone sollevato col quale quel giornale ha quindi raggiunto il suo scopo, per dire perché ritengo quella non satira ma una mera operazione di marketing, fatta sulla pelle dei morti.
A scanso di equivoci, non voglio dire che ci siano argomenti off limits per la satira. Tutto è satirizzabile. Ma, appunto, se espresso come un elemento di satira, e la satira ha parametri, quindi limiti, suoi propri, altrimenti non sarebbe nemmeno definibile come genere autonomo. Ma quella non è satira.
Perché?

lunedì 12 settembre 2016

Fertility Day: aprite la mente, prima di tutto

di Deborah Biasco (deborahbiasco@hotmail.it)

Fertility Day, il primo si celebra il 22 settembre 2016 per richiamare l’attenzione di tutta l’opinione pubblica sul tema della fertilità e della sua protezione.
“La sua Istituzione è prevista dal Piano Nazionale della Fertilità per mettere a fuoco con grande enfasi: il pericolo della denatalità nel nostro Paese. La bellezza della maternità e paternità.” – Ministero della Salute. 

herstory.it Noi Donne
Vi prego: ditemi che il Fertility Day è uno scherzo, mi va bene anche il sogno. Svegliatemi e fatemi ritrovare in un Paese che non guarda alla Donna, nella Donna, senza alcuna forma di delicatezza, di rispetto.
Quante notti insonni vi hanno suggerito questa idea? Quanto tempo vuoto hanno le vostre giornate, per permettervi la concentrazione e la fantasia sufficienti per decidere e pronunciare simili idiozie? Dove, come vivete? E dove guardate? E cosa vedete?

sabato 6 agosto 2016

sabato 2 luglio 2016

Hannah Arendt and the Desk Murderer

by Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

In March 2016 has took place at the Dept. of Philosophy of the University of Szeged the lecture of Ruggero D’Alessandro titled ‘Hannah Arendt and the Desk Murderer: The banality of Evil as Inability to Think’ – I was pleased to have organized it and to have been moderator as much as I’m now glad to provide this brief summary (the lecture was in English and I’m grateful to Ferenc Szabo for providing summaries in Hungarian of the key points).
Ruggero D’Alessandro, PhD by the University of Lausanne, is currently visiting professor at the University of Varese and ‘Sapienza’ University in Rome. He cares about Contemporary Continental Political Thought. He is the author of numerous publications in Italian, many of them translated in English.
The lecture was based on the 2015 book of D’Alessandro titled The Thinker and the Specialist: Hannah Arendt and the Eichmann Trial. As the title says, the lecture was devoted to one of the main Arendtian themes: the famous formulation of the banality of evil, as she defined it in her famous book of 1963 Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil. As is well known, Arendt followed the trial of Otto Adolf Eichmann, the Nazi officer in charge for the so-called final solution (the planned extermination of all Jews, but not only of them, from the Earth), as reporter of the American newspaper ‘The New Yorker’. By collecting and reworking these reportages, it arose the book.
The main thesis of the book is that Eichmann was not an evil person, a sort of Iago in Shakespeare’s Othello, but a banal one. A thesis for which Arendt was harshly criticized by the Jewish Community for which Eichmann simply played the role of the monster. Why banal? The immediate answer is: because unable to think. But what does this inability mean for Arendt?

mercoledì 29 giugno 2016

Through Sartre and Marcuse: For a Realistic Utopia

by Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; II of 2) 

              So for Marcuse the term utopia has not a negative connotation; this degrading meaning plays alongside and in favour of the status quo. On the contrary, the utopian idea, as Marcuse thinks it, is a negation or a refusal of the actual in favour of the realistic possible, and so it keeps alive the possibility of a world qualitatively distinct from this one by virtue of the permanent transcending of what is already given. And this commitment is very urgent in a world which believes that the liberty, without discern between the false and the authentic one, has already been achieved, without realizing the dynamics of increasing reification to which it is submitted[1]. Philosophy, not as a particular discipline among the others, an accumulation of specialist knowledge, but as dialectical thought, can show that things do not go this way. In fact, dialectical philosophy and imagination can present an alternative reality, which is in itself a critique of the established order of things, not merely because they imagine and speak about alternatives, but, this is the point, because imagination and dialectical thought can grasp the reality in its totality, as a whole, and by virtue of this can delineate realistic possibilities.
            In other terms, the imagination makes possible a more comprehensive, and therefore more “realistic”, representation of the world. This way it can born a sort of imaginative map reliable over the limits of the factual details (scientific realism) because it includes them in a more comprehensive overview, which is at the same time realistic (because it begins from the reality) and critical (because it transcends the reality). This is the realistic utopia which Marcuse describes as that Great Refusal where the imaginative potential of art lies, the only authentic revolutionary potential.

The Great Refusal is the protest against the unnecessary repression, the struggle for the ultimate form of freedom - 'to live without anxiety'. But this idea could be formulated without punishment only in the language of art. In the more realistic realm of political theory and even philosophy, it was almost universally defamed as utopia[2]

lunedì 16 maggio 2016

Through Sartre and Marcuse: For a Realistic Utopia

by Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; I of 2)

Federico SOLLAZZO[1]

            Abstract. In this article Through Sartre and Marcuse: For a Realistic Utopia I propose the “realistic utopia” as a moral and political paradigm that can orient us towards a satisfactory life in our own society, I analyze the status of a realistic utopia, the chances to build it and whether the movements of protest of  nowadays (often juxtaposed with those of the ’68) are credible subjects for its realization, or not. This is the reason why it is important pass through Sartre and Marcuse. They were two of the ’68 inspiring figures, but we have to untie their thought from the exclusive reference to that period and vogue, because still today they can provide us the conceptual tools to comprehend, and therefore shape, the world in a realistic utopian way.
            Keywords. Herbert Marcuse, Jean-Paul Sartre, realistic utopia, protest movements.

            Nowadays we are immersed in a global cultural and economic crisis. Several movements of protest are been born in front of them (e.g. the socalled Indignados or Occupy Wall Street), sometimes organized also in parliamentary formations, which give rise to a global contestation that is often compared to the movements of the 1968. However, notwithstanding the deep cultural, social, political, economical differences between these two periods, in order to try to understand if and in which measure this confronting is possible, we have to analyze the conceptual tools proposed in the ’68, seeing if they are still suitable nowadays, and also if the old and current movements of protest have really grabbed the conceptual content of that thought. For analyze that conceptual background, we will take here in consideration the thought of two of the maîtres-penseurs of that time, Jean-Paul Sartre and Herbert Marcuse. 
            As is known, the main slogan of the May ’68 was “power to the imagination”: the idea that the empowered imagination would make possible a glimpse of authentic freedom; an idea leaded forward through existentialist and Marxist conceptual tools[2]. However, the Modern development across all the Western world, latter increasingly extended up to almost coincide with the entire globe (and in all cases, affecting the entire globe), of the capitalist mode of production and consumption and, especially and proper nowadays, the explosion of the technological rationality, about which still remain lighting the analyzes of the first School of Frankfurt and of Martin Heidegger[3], show how the imagination is resulted useful for industrial, technical, entertainment-based applications than for a liberation of man, for the socalled system than for its alternatives.
            Under this regard it seems to me that it still remains to meditate accurately on the legacy of two famous sentences, one by Marcuse and one by Heidegger. That of Marcuse: «A comfortable, smooth, reasonable, democratic unfreedom prevails in advanced industrial civilization, a token of technical progress», and that of Heidegger: «the essence of technique is nothing technical»[4].

Call for Papers: The Contribution of Critical Theory in Understanding Society


POLIS 
(Journal of Political Science)
CALL FOR PAPERS
The contribution of Critical Theory in understanding society 
(Ed. Federico Sollazzo)

Vol.4, Nr. 4(14)/2016 (scheduled publication: December 2016; please, see here, last line of the table: http://revistapolis.ro/ads/?lang=en)

Description:

Strumentalità e natura (umana)

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Le nuove frontiere della tecnica costituiscono anche le nuove frontiere della morale, delle quali si parla e si parlerà sempre più; in questo momento, ad es., a proposito del cosiddetto utero in affitto. A priori, non credo possano esserci obiezioni sul fatto che ciascuno possa vivere e agire come più gli piace (si badi, en passant, che questo discorso ne contiene un altro, ovvero il fatto che il limite di tale libertà non sia da intendersi come quel confine dove inizia la libertà altrui: questa è una visione della libertà a compartimenti stagni, a perimetri, a ghetti, una sorta sistema di celle contigue; il limite, se questa è la parola giusta, sta invece nell'interazione con l'alterità: la libertà non è un oggetto da possedere, è una relazione), ergo ogni pratica atta ad incrementare tale libertà è in linea di principio benvenuta.
Federico SollazzoE tuttavia una misura resta. Ma non mi sembra che possa essere quella che si sente andare per la maggiore: indignarsi perché l'utero in affitto, in questo caso, o altre pratiche in altri e/o futuri casi, è una strumentalizzazione della natura, segnatamente di quella umana, per di più fatta per denaro.
Questi argomenti non mi sembrano convincenti per delle ragioni molto semplici.

venerdì 29 aprile 2016

I competenti

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Non si può fare politica senza pronunciarsi su questioni che nessun uomo sensato può dire di conoscere. Si deve essere infinitamente stupido o infinitamente ignorante per avere un’opinione sulla maggior parte dei problemi posti dalla politica.
P. Valéry, Des partis

Sono molti i luoghi in cui Galimberti mette in evidenza come, sotto la spinta dell’iperspecializzazione che lo sviluppo della tecnica (mi permetto di specificare, questo sviluppo di questa tecnica) ci richiede, la democrazia sia destinata ad estinguersi per mancanza delle competenze tecniche necessarie per prendere una decisione su uno specifico tema – sicché, le decisioni vengono poi prese con la “pancia” e i politici diventano affabulatori di masse incompetenti (su questo, una scorrevole e affascinante lettura può essere il suo La morte dell’agire e il primato del fare nell’età della tecnica).
Le implicazioni etiche di un simile scenario sono state individuate dalla Arendt nel suo dirompente La banalità del male dove identifica nella specializzazione, e quindi nello specialista (in quel caso, della “soluzione finale”, amministrata come un qualsiasi indifferente atto specialistico: Eichmann), la fine non solo della possibilità di pensare ma anche della facoltà di giudicare, quindi della responsabilità – tema già anticipato nel’44 da Camus (Eichmann in Jerusalem è del ’63), quando nel suo articolo Non tutto si sistema (pubblicato su Lettres françaises, giornale clandestino del Comité national des écrivains, con un certo imbarazzo), imputa al membro del Governo Vichy, Pucheu, un torto che definisce come “mancanza di immaginazione”; tipica, oggi lo si può constatare ancor più di ieri, dello specialista.

lunedì 25 aprile 2016

Pratica filosofica: pulizia dell'anima

di Maria Giovanna Farina (mg.farina@libero.it)

Mostrerò l'endosmosi abusiva dell'assertorio nell'apodittico e della memoria nella ragione, sosteneva il filosofo Gaston Bachelard (1884-1962) nel suo libro La formazione dello spirito scientifico. Ci avvertiva che questo suo volume sarebbe stato utile per comprendere e distinguere ciò che è scientifico da ciò che è frutto di credenze. Il problema è l'endosmosi, cioè la confusione nel senso preciso di con-fondere, fondere insieme in modo abusivo, arbitrario, ciò che è scientifico con ciò che è invece solo frutto della opinione comune. Fu Platone ad insegnarci la differenza tra doxa e episteme nel dialogo della Repubblica dove sottolinea la validità dell'episteme, il sapere che si basa su conoscenze incontrovertibili, oggi diremmo scientifiche; altra cosa è la doxa, l'opinione che si basa sull'apparenza in contrasto con l'aletheia, quella verità ri-cercata dal filosofo. La nota metafora della caverna, conosciuta con il nome di mito della caverna, esprime per bocca di Socrate, con chiarezza lapalissiana come gli uomini incatenati e obbligati a vedere le ombre proiettate sul fondo della caverna scambino queste ultime con la realtà, diventando incapaci quindi di riconoscere la differenza tra apparenza e verità dei concetti universali. In parole povere se sono obbligata ad osservare la superficie delle cose, le ombre, come posso osservare il loro contenuto profondo? Se subisco passivamente tutto ciò che mi propinano per buono, se sono incatenata dai pre-giudizi, come posso riconoscere il buono in sé? Cioè il vero buono, quello che mi fa bene, che mi fa essere una persona migliore?

martedì 5 aprile 2016

Marcuse and Habermas: Perspectives in Critical Theory

Lecture by Federico Sollazzo
The Critical Theory of Society, that address of thought arisen by the so-called School of Frankfurt, seems to be very suited in describing the nowadays social situation. However, notwithstanding the presence of a common ground, in the Critical Theory of Society – and the same is for the School of Frankfurt as Institution – we find different perspectives and thought’s articulations, sometimes very far from each other.
We can find a very interesting divergence in the transition between the so-called first and second phase of the Institute for Social Research of Frankfurt, that corresponds to two different approaches in Critical Theory. These perspectives can be exemplified comparing the work of Herbert Marcuse and that of Jürgen Habermas.
My aim here is to show how this comparison is not a mere academic exercise. Far from it, the aftermaths of such a comparison – that on its core is between a substantive and a formal idea of man – can enlighten our individual and social choices.

domenica 13 marzo 2016

Se questa è filosofia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

(Il presente articolo è stato inizlamente pubblicato su «La chiave di Sophia», diviso in due parti, rispettivamente il 14 e il 24 febbraio 2016)

In parole povere stiamo dicendo che non possiamo fare a meno della storia della filosofia (...) allora questo non potere fare a meno diventa una domanda su questo non potere fare a meno, diventa la richiesta che ci sia esibito come tutto ciò si è dato. E là dove non c'è questa domanda, dove non è suggerita, sollevata, ricordata, non c'è esperienza filosofica, non c'è esercizio filosofico, c'è solo esercizio di cultura. Ma se la cultura è infine libertà, la mera cultura storiografica non è esercizio di libertà, perché è l'esercizio di essere soggetti alla cultura e non soggetti della cultura, soggetti alla pratica, senza nemmeno essere consapevoli di esserlo. 
C. Sini, La verità pubblica e Spinoza

Ormai il sapere occidentale ha un suo orientamento ben preciso, che emerge con particolare evidenza nei luoghi del sapere istituzionalizzato: le università. Chiunque abbia un minimo di confidenza con queste, infatti, sa bene che ciò che avviene là dentro è una trasmissione di dati. Cosa che è comprensibile nel caso di quei saperi direttamente finalizzati alla realizzazione di qualcosa di pratico – anche se questo non li esonera da una riflessione sulla loro stessa essenza, che è invece quasi sempre assente. Cosa che però avviene anche per quelle discipline che avrebbero il proprio fine in se stesse, quindi essenzialmente in una riflessione su se stesse, non nella ricerca di un utile esterno, e che invece diventano sempre più un archivio di dati trasmissibili e verificabili, nozioni soggette ad una metodologia unica, universale e predeterminata.  

giovedì 18 febbraio 2016

Federico Sollazzo, "Tra totalitarismo e democrazia. La funzione pubblica dell’etica"

di Moira De Iaco (moiradeiaco@libero.it)

Il libro di Federico Sollazzo Tra totalitarismo e democrazia. La funzione pubblica dell’etica – arricchito nella nuova edizione digitale della Kkien Publishing International dal testo iniziale “Quando una crisi non è un’opportunità: la coincidenza con ciò che si vorrebbe superare” – risponde a un’istanza fortemente attuale, quella di riflettere sulla forma politica e morale delle democrazie occidentali liberali fondate sulla razionalità strumentale. Assolvere il compito di svelare quello che Sollazzo chiama “totalitarismo post-totalitario” affrontando temi e autori della filosofia morale e politica contemporanea, permette a quest’opera di presentarsi come un’indispensabile strumento per studenti e studiosi intenti a riflettere sulla crisi totalizzante del nostro tempo. La prospettiva, come l’autore si preoccupa di precisare nella premessa, non è quella di auspicare un nostalgico e obsoleto ritorno al passato, bensì quella di indagare “la struttura pratico-operativa e ontologica della società occidentale” (p. 4) in vista del conseguimento di un pacifismo sociale. 

Il lavoro si articola in quattro capitoli preceduti da un saggio iniziale e seguiti da un’importante bibliografia ragionata. L’eterodeterminazione, da intendersi come una forma di autodeterminazione indirizzata e vincolata a forme e modalità prestabilite,  come prodotto del tempo in cui ci troviamo a vivere, è l’oggetto di riflessione dell’articolo introduttivo: l’Essere della nostra epoca, il soggetto impersonale che governa la vita di chi vive in questo tempo, è la razionalità strumentale. Il suo avvento viene efficacemente descritto con la dialettica hegeliana servo-padrone: il capitale, l’Essere, “schiavizza la tecnica per potersi incrementare e moltiplicare con efficienza, il capitale è il padrone, la tecnica il servo” che hegelianamente è diventato il padrone – e dunque l’Essere del nostro tempo – schiavizzando il capitale (p. 6). L’uomo risulta quindi dominato dalla razionalità strumentale che ne determina tanto gli atteggiamenti, i ragionamenti, i bisogni e i desideri orientandoli in modi e forme e prestabilite quanto le relazioni sociali che entro questo quadro sono immodificabili. L’individuo così conformato, non eccedente la razionalità strumentale ma ad essa coincidente, è un esecutore di funzioni economiche e sociali che indossa delle maschere. In una tale società, Sollazzo evidenzia come lo stesso pluralismo politico tanto sbandierato dalle democrazie occidentali sia solo “formale e nominale”, “una lista dicliché”; infatti, misura quantità e non esprime qualità (p. 7). Al soggetto, che corre costantemente il rischio di costruirsi entro l’ordine prestabilito, nessuna differenza gli è garantita, non gli resta che un movimento di sottrazione, chiave d’accesso a un territorio di pura negatività dove soltanto è possibile generare qualcosa di autentico e originale.

lunedì 8 febbraio 2016

Invece che questuare la politica

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Sempre più spesso ci si affida alla politica per la risoluzione di problemi essenziali (addirittura a volte non semplicemente chiedendo ma pretendendo tale risoluzione) – sintomo di uno spaesamento generale che innalza la richiesta di pater familias. Ma una simile richiesta, pretesa, supplica è giustificata? La politica può e/o deve soddisfarla?
Innanzi tutto, per avere almeno una chance di soddisfarla i politici dovrebbero essere degli uomini di cultura e pensiero, cosa oggi sempre più rara, basti notare la pochezza culturale e la piattezza argomentativa di molti di loro.
Ma soprattutto, i politici non possono e non devono soddisfare quella questua di senso, perché la politica – che evidentemente prendo qui in termini istituzionali – è mera amministrazione dell’esistente.

Il pop è morto, viva il pop!

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

“Sarà una sorta di X Factor delle idee”. Così un politico (in questo momento non importa chi, dato che il fenomeno che vorrei ora descrivere è generalizzato e trasversale, essendo un fenomeno storico-sociale, ovvero di civilizzazione) ha di recente definito un evento pubblico che riguardava il suo partito.
Non che sia vietato fare battute per creare un clima leggero e conviviale. Ma il problema è che c’è battuta e battuta, e che i riferimenti a fenomeni della cultura di massa, oggi più che scherzi sono gli unici riferimenti di cui gran parte della popolazione dispone – politici inclusi ovviamente, che più cercano popolarità e più diventano popolari, in tutti i sensi della parola. Infatti, basta provare a chiedere a qualcuno di rendere lo stesso concetto con un riferimento che non sia tratto dalla cultura di massa e il più delle volte questo qualcuno rimarrà senza parole.
Ora, a scanso di equivoci ripeto che non c’è nulla di male nel riferirsi anche a ciò che è pop, ma, appunto, anche, non solo. E aggiungo inoltre che il riferimento al pop non solo non è demoniaco di per sé, ma è anche doveroso per comprendere appieno il tempo in cui ci è dato vivere. Per stare davvero nel mondo, con tutte le sue bellezze e bruttezze. Come disse una volta l’allenatore José Mourinho “chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”, e il filosofo Elio Matassi con una indovinata sostituzione di termini cambiò la frase in “chi sa solo di filosofia, non sa nulla di filosofia”. Ed ecco un riuscito esempio di come cultura “bassa” e cultura “alta” possano felicemente incrociarsi – d’altra parte esse hanno molto in comune, è tutto quello che c’è nel mezzo che è medio, nel senso di mediocre.

sabato 2 gennaio 2016

La politica ci può salvare?

Ciclo di conferenze
La politica come pensiero
Conferenza di Federico Sollazzo
La politica ci può salvare?

Un pensiero su e dopo Pasolini, sulla sua tomba a Casarsa della Delizia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il seguente video è stato registrato il 28 ottobre 2015, in occasione del Convegno internazionale, "Pasolini. Le ragioni di una fortuna critica".