sabato 23 novembre 2013

Quante facce ha la banalità del male? Uno studio su Arendt e Dostoevskij

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it; II di 2)

Come è già avvenuto per Eichmann, anche per Ivan il percorso intrapreso costringe a non analizzare tutti gli elementi che riguardano il personaggio dostoevskiano. Ci si limita, quindi, a prendere in considerazione soltanto quegli aspetti ritenuti essenziali per giungere ad un possibile collegamento con Eichmann. Per far ciò, si tenta di ricostruire la personalità di Ivan seguendo le caratteristiche che Dostoevskij stesso disvela, così come esse si susseguono nel romanzo. Ogni aspetto meriterebbe più spazio; ma ai fini del presente studio ci si limita soltanto a ripercorrere brevemente gli episodi che chiariscono la “filosofia” di Ivan Karamazov.
I lettori di Dostoevskij che conoscono anche Eichmann, potrebbero pensare che non ci sia nulla in comune tra Ivan e Eichmann. Effettivamente la prima descrizione che Dostoevskij fornisce di Ivan sembrerebbe confermarlo:
“questo ragazzo cominciò molto presto, fin dall’infanzia (a quanto si diceva, almeno), a manifestare non comuni e spiccate attitudini allo studio.”[1]
A ciò va aggiunto che Ivan era anche laureato in storia naturale. Al termine del presente itinerario si tenterà, invece, di mostrare quanto Ivan ed Eichmann siano vicini.
Il primo episodio del romanzo che bisogna citare si svolge nella riunione della famiglia Karamazov presso lo starets Zosima. In questa occasione il liberale Miusov riferisce i contenuti di un'argomentazione tenuta da Ivan:
“egli dichiarò solennemente in una discussione che in questo mondo non c’è assolutamente niente capace di costringere gli uomini ad amare i propri simili; che non esiste affatto una legge naturale per cui l’uomo debba amare l’umanità; e che, se c’è e c’è stato finora amore sulla terra, non è per una legge di natura, ma unicamente perché gli uomini hanno creduto nella propria immortalità. Ivan Fedorovic aggiunse poi tra parentesi che appunto a questo si riduce ogni legge di natura, cosicché se si distruggerà negli uomini la fede nella propria immortalità, senz’altro si inaridirà in loro non soltanto l’amore, ma ogni energia vitale, capace di perpetuare la vita nel mondo. Non basta: allora non ci sarebbe più niente di immorale, tutto sarebbe lecito, perfino l’antropofagia. Non basta ancora questo: concluse affermando che per ogni singolo individuo, come noi per esempio, che non creda in Dio, né all’immortalità della propria anima, la legge morale della natura deve immediatamente trasformarsi nel perfetto opposto dell’antica legge religiosa, e che l’egoismo spinto magari fino al delitto non solo deve essere permesso all’uomo, ma addirittura riconosciuto come la soluzione più necessaria, più ragionevole e quasi la più nobile delle condizioni in cui si trova.”[2]

mercoledì 20 novembre 2013

Quante facce ha la banalità del male? Uno studio su Arendt e Dostoevskij

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it; I di 2)

Nel presente studio si tenterà di verificare l’esistenza di un possibile collegamento tra la celebre formula utilizzata da Hannah Arendt nei confronti del criminale nazista Eichmann (la banalità del male), e il personaggio dostoevskiano di Ivan Karamazov[1]. Il procedimento adottato verte anzitutto sulla ricostruzione dell’uomo Eichmann, così come viene descritto da Arendt. Particolare attenzione è centrata sui problemi di carattere morale che tale descrizione comporta. In seguito si tenterà di stabilire se è possibile ipotizzare una relazione tra Eichmann e Ivan Karamazov, proprio alla luce del concetto di banalità del male. Tale relazione, se riscontrata, permette di pensare, da un altro punto di vista, la concezione del male che Dostoevskij esprime attraverso il personaggio di Ivan. Le acquisizioni che il presente studio crede di poter apportare, consentiranno, inoltre, di esprimere una considerazione generale sul rapporto tra filosofia e letteratura. 
Come precedentemente dichiarato, il presente studio intende iniziare dalla ricostruzione dell’uomo Eichmann, così come Arendt ne sviluppa la vicenda processuale (bisogna precisare che tale percorso non pretende di esaurire le molteplici problematiche che vengono sollevate dal saggio di Arendt). Per cogliere la personalità di Eichmann, è utile fare riferimento alla prima descrizione che Arendt fornisce:
“la giustizia vuole che ci si occupi soltanto di Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf Eichmann, l’uomo rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo: un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco (neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente cercherà (riuscendovi quasi sempre) di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo.”[2]
è importante, per il fine perseguito in questo studio, cercare di rendere manifesta la concezione che Arendt ha di Eichmann; concezione da cui dipende la formula della banalità del male, qui al centro dell’attenzione. Diviene necessario, quindi, esplicitare quali sono i convincimenti dell’imputato rispetto ai mostruosi crimini di cui è accusato. Puntualmente Arendt fornisce preziose informazioni in proposito:
“Richiesto su ciascun punto se si considerasse colpevole, Eichmann rispose: “Non colpevole nel senso dell’atto d’accusa”. In quale senso si riteneva colpevole? Nel corso dell’interminabile interrogatorio, che secondo le parole dello stesso imputato fu “il più lungo” che mai ci fosse stato, né la difesa né l’accusa e nemmeno i giudici si presero la briga di rivolgergli quell’ovvia domanda.”[3]

mercoledì 13 novembre 2013

Appunti sulla democrazia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Pagando anch’essa il suo dazio al corrente spirito dei tempi, la democrazia è oggi un brand produttivo, in crisi di produttività. Nel corso degli ultimi secoli, con un’accelerazione enorme nell’ultimo a causa del progresso tecnologico, la politica è gradualmente diventata un’estensione dell’economia (ovviamente intesa non come oikos ma come crematistica, oggi nella sua forma di capitalismo finanziario), assoggettando così i contenuti politici a quelli economici, rendendo la politica una funzione dell’economia. Questo scenario ha funzionato fintantoché l’economia era in attivo e la politica accettava di buon grado di prostituirsi ad essa (sedicente necessità a tutt’oggi ripetuta come un mantra) in cambio dei benefici di quell’attivo. Nel momento in cui questo quadro si è rotto (e c’era da aspettarselo dato che uno schiavo che è ormai tale nella sua forma mentis non necessita più di benefit che lo inducano alla e lo mantengano nella condizione servile), l’economia è uscita allo scoperto, manifestando di non avere più bisogno del suo obsoleto servo (la politica) e di voler amministrare uomini e cose in modo diretto: i tecnici. La politica, per parte sua, finge di volersi sottrarre da questo assoggettamento (di cui è complice) proponendo alternative demagogiche e populiste, per lo più basate su un mitico e mitizzato nomos della terra, sulla retorica della piccola patria (ripiegata su se stessa, come ogni “famiglia” che si rispetti); finge, perché lo scopo e l’orizzonte è sempre quello della gestione di un potere che o è economico o non è.

venerdì 1 novembre 2013

Alcuni possibili fraintendimenti sulla "mutazione antropologica" in Pasolini

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Si pubblica di seguito il video della Relazione, Alcuni possibili fraintendimenti sulla "mutazione antropologica" in Pasolini, tenuta da Federico Sollazzo al Convegno, Attualità di Pasolini "corsaro", organizzato da e presso l'Istituto Italiano di Cultura di Praga (Repubblica Ceca), nel 2012.
A seguire, un estratto dal dibattito.