giovedì 22 novembre 2012

Potere (Rai Filosofia)

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Si riporta di seguito il video di presentazione della moderazione di Federico Sollazzo del dibattito sul tema "potere" su Rai Filosofia.


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giovedì 15 novembre 2012

Che cos’è un privilegio? Economisti, battete un colpo!

di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com)

La lotta a privilegi e privilegiati è partita e viene condotta senza esclusione di colpi e senza, paradossalmente, privilegiare nessuno: nessuno è escluso, ognuno deve rinunciare ai suoi privilegi in nome del bene comune o, più “sobriamente” (come va di moda), dell’interesse comune.
Di conseguenza è scattata una sorta di caccia alle streghe in cui tutti siamo un po’ streghe, una banca più di un’assicurazione, un’assicurazione più di un notaio, un notaio più di un farmacista, un farmacista più di un tassista, un tassista più di un “padroncino”, un “padroncino” più di un netturbino, a questo punto.
Difficile così capire cosa possa significare colpire i privilegiati, sottrarre privilegi a chi li possiede, se ogni interesse di categoria diventa di per sé un privilegio corporativo da estirpare o, quantomeno, da ridimensionare.
In un senso generalissimo, con “privilegio” intendiamo qualcosa o, meglio, qualcuno che è “privo” nel senso di isolato, qualcuno che vive in una condizione particolare e separata rispetto a tutti gli altri, e ciò perché privus di lex: il privilegiato è dunque qualcuno che è “privo di legge” e per questo “fuorilegge”, che vive al di fuori della legge comune, non di una qualche legge specifica, ma al di fuori dell’elemento di comunanza e reciprocità  insito in ogni legge in quanto tale. Chi è immune alla legge, al di sopra della legge, al di fuori della legge, e per questo separato dagli altri, al di sopra di noi tutti.
Bene, ma con questo non andiamo molto avanti.

venerdì 2 novembre 2012

Per una moralità minima condivisibile. Antropologia essenziale: biologia ed emozioni

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)


Una delle acquisizioni più consolidate della filosofia, ed in particolare dell’antropologia filosofica, del Novecento è la convinzione che l’uomo non sia una mera somma di due sostanze (res cogitans e res extensa, spirito e corpo), ma una struttura unitaria di corporeità ed extracorporeità[1] nella quale questi due fattori si fondono. Ora, quello che qui si vuole sostenere è che un essere così strutturato possiede una determinata moralità minima (intesa come la percezione di bisogni e desideri essenziali, derivanti dalle peculiarità antropologiche, originanti una determinata distinzione tra bene e male, giusto e ingiusto, ed un conseguente comportamento) che, se proiettata sugli altri, origina un’etica minima (intesa come l’attribuzione agli altri della nostra medesima sensibilità di base, del nostro stesso sentire di fondo, insomma, come una condivisione dello stesso patire). In altre parole, se l’essere umano esiste ancora, dopo più di duemila anni di storia, ciò significa che dispone di una moralità minima condivisa da tutti che, proprio per questo, rende l’etica universale, ma tale universalità dipende dagli “universalizzabili”, cioè, da quegli elementi condivisibili e condivisi da tutti gli uomini, per il solo fatto di essere uomini. Pertanto gli universalizzabili devono necessariamente essere basilari, minimi (andrebbe altrimenti perduta la loro condivisibilità), per questo la proposta che qui viene avanzata verte sull’“universalizzabilità” della biologia e delle emozioni umane, intesi come elementi centrali della costituzione antropologica essenziale. L’antropologia, in tal modo, rappresenta una via d’accesso privilegiata alla morale e all’etica, intese come il perseguimento del bene individuale e collettivo[2]. Ora, il mio intento non è né quello di descrivere la fisiologia umana, di delineare un modello di biologia descrittiva delle funzioni organiche, né quello di disegnare una sorta di mappa delle emozioni umane, nonostante che «sia sempre la nostra capacità di provare peculiari sentimenti morali che ispira la nostra vita etica»[3], bensì quello di estrarre una certa normatività (scaturente da principi e valori che, relativamente all’uomo, possono essere considerati assoluti) dalla ambigua ma unitaria costituzione antropologica umana. Ed in questo proposito non riscontro l’impossibilità di cui parla Jürgen Habermas, per il quale «non è possibile desumere dalla costituzione biologico-naturale dell’uomo imperativi di tipo normativo per una ragionevole condotta di vita»[4], infatti, pur condividendo l’osservazione che «dal punto di vista della teoria del diritto, i moderni ordinamenti giuridici possono ricavare legittimità solo dall’idea dell’autodeterminazione: i cittadini devono potersi pensare come gli autori di quello stesso diritto cui, come destinatari, sono sottomessi»[5], ritengo che il processo di autodeterminazione del diritto non sia in contrasto con l’esistenza di universali principi ispiratori, che i cittadini decidono come concretizzare. L’obiettivo è, allora, quello di passare dal principio della sacralità della vita, tipico della tradizione culturale occidentale, al «principio della qualità della vita»[6], ed evidentemente ciò presuppone l’abbandono di una prospettiva religiosa (in ambito antropologico, morale ed etico), in favore dell’assunzione del dato di fatto antropologico, relativo quindi alla biologia ed alle emozioni (ossia a quei costituenti che, materiali o immateriali che siano, pertengono sempre all’essere umano), come unica fonte normativa in campo morale ed etico; ne consegue pertanto il rifiuto dell’assunzione di uno specifico sentire religioso, politico, culturale, ecc, come origine della morale. Infatti, se si vuole considerare la morale come un tema pubblico, cioè appartenente a tutti gli uomini sia come creatori che come destinatari (ed è questo l’unico modo per tendere verso una pacificazione sociale non omologante, salvante cioè l’eterogeneità della società), allora il ragionamento su di essa deve essere impostato e condotto, non solo in una modalità che sia accessibile a qualsiasi uomo abbia il desiderio e le ragionevoli capacità critico-argomentative per interessarsene, ma in maniera tale che comprenda, abbracci la totalità degli uomini, insomma in modo laico.