mercoledì 22 febbraio 2012

Antropologia della creatività: tra genericità e modalità

di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com; II di 3)

2. Pesci fuor d’acqua: l’uomo e l’«Als»

L’uomo è così un «environment designer» (Clark 1998: 191), vero e proprio «progettista disegnatore di ambienti» e architetto, è «weltbildend» (cfr. Heidegger 1992) e «world builder» o «world maker» (cfr. Goodman 2008)[1]. Ciò significa almeno che la creatività i) va intesa come capacità di andare al di là del dato, della semplice presenza immediata del dato, capacità di transitare ad altro facendo transitare la realtà presente ad altro; ii) va concepita in termini relazionali, perché per creare occorre com-prendere[2], cogliere connessioni e rapporti tra le cose, vedere nelle connessioni presenti la possibilità di connessioni diverse future – tale capacità è capacità specificamente umana (cfr. anche Chiurazzi 2011(a): 58 s.; 2011(b): 64-66); iii) è modale, perché c’è un mondo per ogni diverso modo di combinare e costruire dei sistemi simbolici, il mondo dipende dal modo, è sempre e comunque mo(n)do[3], tanto che «il fabbricare mondi inizia con una versione e finisce con un’altra» (ivi: 114). Pertanto, l’uomo è animale i) «symbolicum»[4], ii) temporale e dunque storico-ermeneutico, iii) potenziale-modale (tre aspetti – quasi tre ipostasi – di un’unica realtà)[5]. Senza dimenticare: l’uomo non può creare mai dal nulla, il dato superato è comunque esistente, le connessioni colte lo sono tra qualcosa di dato, la configurazione di un mo(n)do parte sempre «da mondi già a disposizione; il fare è un rifare» (Goodman 2008: 7), dunque avviene «non dal nulla, dopo tutto, ma da altri mondi» (ibidem).
L’uomo è l’«essere non guidato dall’istinto» (Heller 1983: 140) e per questo l’umanità è in tutto e per tutto «un problema» (ivi: 298), l’uomo «crea attivamente il suo mondo» (ibidem), è in-tenzionalmente proteso verso il mondo, verte e si pro-trae sul mondo, è at-tento e mai in-differente a esso – l’indifferenziato è piuttosto il regno tanto animale quanto divino (cfr. Galimberti 2001: 13-21 e 145-220): l’uomo è coinvolto dal e nel mondo, sente tale coinvolgimento, sentire significa proprio «essere coinvolti in qualche cosa» (Heller 1983: 15), «io sento = sono coinvolto in qualche cosa» (ivi: 16). L’uomo è sempre coinvolto, non raggiunge mai l’indifferenza, la mancanza di significato e di sentimento (cfr. ivi: 17 s.), il suo rapporto con il mondo ha la forma del concernement (cfr. Brague 2009: 213 s.) e dell’inter-esse (cfr. Arendt 2006)[6]: come «essenza aperta al carattere di realtà delle cose», si apre «alla totalità della realtà qua realtà» (cfr. Zubiri 2008: 197-212).
È possibile di-vertere solo muovendo da tale vertere, è possibile dis-trazione solo muovendo dall’at-tenzione, tramite essa: ci si «tira fuori» da qualcosa quando si è riusciti a prestarvi attenzione, quando lo si è colto in quanto quel qualcosa, in quanto tale. Paradossalmente (paradossalità che ritroveremo nel rapporto tra creatività e regola), il primo passo della creatività è il riconoscimento di quel qualcosa a partire da cui si crea, di quel vincolo che limita la libertà pur offrendosi come punto di appoggio e di partenza per l’espressione. Ancora più radicalmente, il primo passo per allontanarsi creativamente dal dato è quello di approssimarsi come non mai al dato stesso, cogliendolo in quanto dato: per prendere le distanze occorre avvicinarsi a ciò da cui si intende prendere le distanze, per riconoscerlo e coglierlo in tutte le sue sfaccettature (per plasmare adeguatamente un blocco di marmo occorre studiarne la configurazione e le venature, per costruire un edificio occorre studiare le caratteristiche dei materiali e la consistenza del luogo, ecc.). Osservando il dato per capire cosa è e come è, si coglie – è la capacità creativa umana – ciò che il dato non è ma può essere, si coglie un altro possibile «come», si sfrutta un vuoto «invitante-provocante», vuoto che nella situazione invita alla modifica, mettendo a distanza la situazione da se stessa, creando uno spazio tra situazione semplicemente presente e una qualche diversa situazione possibile: la situazione viene es-posta, posta al di fuori di sé, messa a contatto con il vuoto che sta al di fuori dei suoi confini, sporta oltre quel limite che kantianamente e wittgensteinamente indica il fuori senza poterlo però immediatamente accostare o toccare.
Il comportamento umano non è dunque unidimensionale come quello animale bensì pluridimensionale: l’uomo può sempre operare uno scarto rispetto all’esistente in direzione del possibilepuò creare (la creatività è questo «può»). L’uomo non è chiuso nell’ambiente come l’animale, «un ambiente è tale perché da esso non se ne può uscire (un pesce fuori dall’acqua muore)» (Mazzeo 2005: 206), vale a dire che «ogni animale è nel mondo come l’acqua dentro l’acqua» (Bataille 2002: 22), «il pesce è nell’acqua, ma tu non puoi separare la sua essenza da questo essere» (Feuerbach 1984: 95), «i pesci sono determinati dalla natura a nuotare» (Spinoza 2001: 517), e «agli animali acquatici sfugge che un corpo bagnato tocchi un corpo bagnato» (Aristotele, Dell’anima, II, 11, 423a 31-33): tutto ciò che può essere da loro «toccato» e «percepito», tutto ciò che per loro «è», è bagnato, colgono solamente ciò che è bagnato, ma non sono in grado di cogliere il bagnato in quanto tale, in quanto distinto dal non-bagnato, ossia non sono nemmeno in grado di cogliere quel bagnato in cui sono immersi, con il quale coincidono in modo immediato. L’animale è immerso nel proprio ambiente come l’acqua dentro l’acqua e non pone l’oggetto in quanto tale, né dunque pone se stesso in quanto tale, in quanto distinto dall’oggetto: non coglie l’Als, non essendo consegnato al Verhältnis ma essendo chiuso nella Genommenheit[7] del rapporto con la propria Umwelt (cfr. Heidegger 1992), resta chiuso alla possibilità di cogliere il fuori rispetto all’ambiente in cui vive e di agire diversamente da come è solito agire, di creare. L’uomo può ritornare «su di sé per cogliere il suo proprio essere-nel-mondo» (Ugazio 1996: 44), per coglierlo in quanto tale, e proprio per questo riesce «a essere fuori» (ibidem), perviene cioè al mondo a partire da un’esteriorità quasi incommensurabile ma capace di determinare ogni misura: l’esistenza umana consiste in un «costante esser-fuori» (ivi: 45) che rende possibile la diversità, l’ulteriorità, la possibilità, ossia – in ultima istanza – la creatività[8]. L’uomo, consegnato alla contingenza della potenzialità, è comunque sempre a rischio di dimenticare tutto ciò, o di non accorgersene: «ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve ragazzi, com’è l’acqua?”. I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: “Che cavolo è l’acqua?”» (Wallace 2009: 143).
L’animale, dunque, «non ha oggetti in quanto vive estaticamente immerso nell’ambiente-proprio» (Scheler 2004: 124), tanto che «ovunque vada, si porta dietro l’ambiente-proprio come una struttura di rilevanza, alla guisa di una lumaca che si porta in giro il proprio guscio» (ibidem): l’animale è immerso nella propria Umwelt, «non può coglierla come “oggetto”» (ibidem), non può porsi al di fuori di essa per osservarla e oggettivarla. Perciò «vive completamente immerso nella realtà concreta del suo immediato presente» (ivi: 131): l’immersione con l’Umwelt fa tutt’uno con l’immersione nel presente, con la totale adaequatio con la realtà concreta e immediata, con quella realtà «caratterizzata innanzitutto dall’avere una posizione nello spazio e nel tempo, un qui e ora» (ivi: 137). L’animale, chiuso nel «qui e ora», non lo coglie in quanto tale: l’uomo, invece, può giungere a «sospendere il carattere di realtà» (ibidem), pronunciando «un energico “No”» (ibidem) rispetto alla realtà concreta e immediata, ossia può «“de-realizzare” il mondo o “ideare” il mondo» (ivi: 139), tentare «di sospendere e annichilire l’impressione totale, indivisa e possente della realtà» (ibidem). L’uomo può mettere tra parentesi la realtà presente in funzione di una realtà ideale e possibile, può compiere l’epoché liberandosi del carattere oppressivo e ripetitivo della possente e chiusa realtà: può creare. Sentendo il vuoto del cuore connesso al suo caratteristico Phantasieüberschuß (cfr. ivi: 129-131), si apre all’ulteriorità e al possibile, si apre alla trasformazione della realtà presente e alla creatività: l’uomo non è immerso nella Umwelt, è eccentricamente aperto al mondo [Umweltexzentrisch]. Solo l’uomo può sentirsi un «pesce fuor d’acqua», a dis-agio, fuori da un ambiente accogliente e in grado di metterlo a suo agio, sentendo così la necessità di «cambiare aria» (di respirare «aria pulita», di passare dall’acqua all’aria) e di ritagliarsi un altro spazio, perché solo l’uomo non ha uno e uno soltanto ambiente specifico da abitare ma vede aprirsi dinnanzi a sé, come nessun altro vivente, «un orizzonte di smisuratezza» (ivi: 111): solo l’uomo può creare.
La creatività umana, come già affermato, non va però intesa come un arbitrio sregolato, non essendo mai creazione dal nulla: anzi, è fatta di/da regole, ha necessariamente a che fare con regole, impiegate e istituite.

[1] Dal titolo originale e «modale» Ways of Worldmaking.
[2] «Comprendere e creare vanno di pari passo» (Goodman 2008: 25). L’autore giunge addirittura ad affermare, connettendo in maniera significativa relazione ad artificialità, che «“fatto”, come “significato”, è un termine sincategorematico; i fatti, dopo tutto, sono qualcosa di chiaramente artificiale» (ivi: 109).
[3] Possiamo per esempio leggere: «il nostro orizzonte è costituito dai modi di descrivere tutto ciò che viene descritto. Il nostro universo consiste, per così dire, di questi modi» (Goodman 2008: 3); «gli universi di mondi, come i mondi stessi, si possono costruire in svariate maniere» (ivi: 6); «la nostra passione nei confronti di un mondo è soddisfatta, in occasioni e per scopi differenti, in molti modi diversi» (ivi: 23).
[4] Cfr. p.e. Cassirer 2004; Deacon 2001; Desideri 2011.
[5] Ogni atto creativo-storico-modale ripete ogni volta «il simbolico fare-ancora-una volta il mondo» (Jonas 1999: 221).
[6] Per l’uomo dunque «esistere significa sentire e pensare» (Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 9, 1170a 33). La non-indifferenza dell’uomo nei confronti del mondo è anche la ragione della possibilità della sua felicità: se, infatti, «per gli dèi tutta quanta la vita è beata» (ivi, X, 8, 1178b 25) perché «Dio possiede già ciò che è bene» (ivi, IX, 4, 1166a 21-22), in modo tale che la beatitudine divina è indifferente rispetto agli eventi e al contingente, distinguendosi così dalla felicità, e se «nessuno degli altri viventi è felice» (ivi, X, 8, 1178b 27) perché rinchiuso nell’indifferente circolarità del suo ambiente-proprio, ebbene, per gli uomini una vita felice è possibile nei limiti e nella misura che contraddistinguono l’esistenza umana, le capacità umane e la contingenza che rendono l’uomo mai indifferente (cfr. p. e. Aristotele, Metafisica, XII, 7, 1072b 14-18 e 25), è cioè possibile perché gli uomini possono farsi «un’immagine» (Aristotele, Etica Nicomachea, X, 8, 1178b 26) della felicità stessa, ossia perché possono prendere le distanze da sé e da quanto li circonda per aprirsi compiutamente al mondo e incamminarsi lungo la propria via, in ricerca del proprio buon demone (eu-daimonia), spezzando il vincolo dell’indifferenza, lacerandone la compattezza. Ossia, è possibile se si passa per la ricerca, per quel ponos che accompagna ogni attività umana rendendola veramente attiva: la felicità stessa è una questione di creatività, di capacità di dare «artisticamente» forma alla propria vita.
[7] Un «intorpidimento» che nell’uomo corrisponde quasi al kantiano «sonnno dogmatico» e al fichtiano «dogmatismo» propri di chi accetta ciò che c’è come naturalità intrascendibile e intrasformabile, come dogma indiscutibile e dunque insuperabile – al più sopportabile (a tal proposito cfr. Sloterdijk 1983).
[8] L’uomo coglie, per riprendere una terminologia che Marie-José Mondzain utilizza in un orizzonte storico-speculativo del tutto differente da quello qui tematizzato, quel «fuori-campo» che, creando distanza e differenza, è l’apertura dello spazio del possibile e della circolazione del senso: l’uomo può così «essere-nello-scarto» (cfr. Mondzain 2011). Vale la pena di ricordare la splendida affermazione goethiana citata da Cassirer, secondo la quale «wer fremde Sprachen nicht kennt, weiss nichts von seiner eigenen» (cfr. Cassirer 2004: 238): solo conoscendo il fuori rispetto al proprio mondo si può conoscere davvero il proprio mondo, diventando così paradossalmente «stranieri ma nella propria lingua» (cfr. p. e. Deleuze-Guattari 2010: 449).

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