venerdì 28 ottobre 2011

Ungaretti, "Lucca"

 di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre
ci parlava di questi posti.
La mia infanzia ne fu tutta meravigliata.
La città ha un traffico timorato e fanatico.
In queste mura non ci si sta che di passaggio.
Qui la meta è partire.
Mi sono seduto al fresco sulla porta dell'osteria con della gente
che mi parla di California come d'un suo podere.
Mi scopro con terrore nei connotati di queste persone.
Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei morti.
Ho preso anch'io una zappa.
Nelle cosce fumanti della terra mi scopro a ridere.
Addio desideri, nostalgie.
So di passato e d'avvenire quanto un uomo può saperne.
Conosco ormai il mio destino, e la mia origine.
Non mi rimane che rassegnarmi a morire.
Alleverò dunque tranquillamente una prole.
Quando un appetito maligno mi spingeva negli amori mortali, lodavo
la vita.
Ora che considero, anch'io, l'amore come una garanzia della specie,
ho in vista la morte.

La poesia è tratta dal volume Allegria del 1931. Tale raccolta è caratterizzata dalla fede nella capacità evocatrice della parola e dall’istanza biografica. La punteggiatura è rifiutata per dare nuovo risalto alle parole in una autosufficienza espressiva, la metrica risulta scardinata per farsi prosa in un libero fluire dell’anima. 
Le esperienze dei due conflitti mondiali e il loro forte impatto emotivo influirono in modo determinante nell’espressione artistica di Ungaretti. Nelle sue opere trapelano infatti le fragilità dell’uomo stesso che si vede smarrito alla ricerca della propria identità e delle proprie radici. A lui si riconosce inoltre lo sviluppo di un nuovo stile che si realizza nell’immediatezza espositiva, nell’uso di analogie e nella rottura delle regole della metrica tradizionale con l’abbandono della punteggiatura, la parola è un "abisso" dove ricercare se stessi.
Lucca è una poesia di ricapitolazione: il giovanile fermento pare finito, la responsabilità comincia a pesare, ci si avvia alla maturità. Solo ora, appena uscito dalla guerra, il pensiero di Ungaretti va alla morte. Ha più di trent'anni, è spaesato, vede per la prima volta Lucca e scopre le sue radici, lui nomade. In questa poesia riconosce esplicitamente le sue origini lucchesi e rievoca i ricordi personali, le tappe attraversate nello scorrere della sua vita. Il contatto con la violenza della guerra rafforza la tensione del poeta verso l’innocenza, la purezza, l’origine. Questa poesia è appunto il ritrovamento di un momento autentico e perciò puro, innocente, originario. L’immagine della città di Lucca lo pone in una condizione di ancestrale armonia con la realtà circostante e soprattutto con la natura, rievocata attraverso la vividezza degli aggettivi utilizzati.
Ungaretti rievoca la propria infanzia quando dopo cena la madre gli narrava di certi luoghi. La sua infanzia fu colpita da questi racconti. Successivamente il poeta si sofferma sulla città di Lucca tentando di descriverla, di vivere i suoi luoghi, si ferma in una locanda e sta a contatto con la gente, ascolta i discorsi. Si immedesima con l’anima degli abitanti e ciò gli suscita sentimenti profondi, conturbanti, si sente più vicino ai suoi antenati e alle sue origini. Riconosce e ammette le sue origini umili, si rende conto del suo destino e dell’approssimarsi della morte ed è intenzionato ad avere figli. Riflette poi sulle proprie esperienze sentimentali.
Il realismo descrittivo di Ungaretti pregna profondamente questa poesia. Nel testo troviamo insiti rimandi e riferimenti alla città di Lucca. In "in queste mura" il poeta utilizza non a caso il sostantivo "mura" ad indicare la nota origine di Lucca quale città medievale, che conserva tutt’ora le sue cinte murarie. 
"Ho preso anch’io una zappa": il rimando all’arnese agricolo non è casuale, Lucca è una città di agricoltori, e di migranti. 
I versi 12-13 riescono a esprimente la fertilità e la procacità di una terra, quella lucchese, che viene equiparata a una figura di donna. Il ritorno ancestrale alla propria terra e alle proprie origini, vissuto quasi come un ritorno fetale, provoca nel poeta un sentimento di allegria ("e mi scopro a ridere"), parola chiave che intitola la raccolta da cui la poesia è tratta. Alla terra, con le sue "cosce fumanti", il poeta si sente legato quasi come in un idillio amoroso e passionale. Alla luce delle teorie psicoanalitiche elaborate in quegli anni, è possibile leggere in questi versi e in queste parole un riferimento alla sfera sessuale che coinvolge la terra in quanto Madre-Terra. Sappiamo infatti come la figura della madre sia centrale nella poetica di Ungaretti e quindi questa ipotesi potrebbe essere rivelatrice, ancora una volta, dell’attaccamento del poeta alla propria madre.
La città di Lucca è descritta nei versi 4-6. Lucca è caratterizzata dal traffico "timorato" come di chi sta sempre in preda all’ansia e "fanatico", ovvero troppo entusiasta, in continuo fermento. Il poeta avverte infatti come non vi sia neanche il tempo per soffermarsi sulle mura, in una città dove, appunto, la meta è partire, andare sempre. Lucca è una città dove la conformazione urbana mantiene in maniera vivida le proprie origini medievali, quindi suggerisce e facilita il bisogno del poeta di rievocare e percepire le proprie origini. 
"La meta è partire" indica una conoscenza della città, del suo sviluppo e delle sue dinamiche storiche: Lucca è una città in cui fin dal Medioevo gli abitanti erano contadini, spesso costretti a partire per cercare nuove opportunità di sostentamento, dove l’emigrazione risultò decisiva per varie attività quali, ad esempio, il commercio della seta. Tale caratteristica il poeta la sente propria, esclusiva, riconosce che il suo destino ha delle origini profonde insite nella storia di questa città.
Il poeta si sente sgomentato davanti a una verità che gli sembra rivelata nel contatto con gli abitanti e la città di Lucca. Qui riconosce se stesso, le origini del proprio destino di viandante e poeta. Lucca è una città determinante per il poeta, come la chiave che svela tutte le sue domande esistenziali cullate nel corso della sua vita: il rapporto con la madre, il viaggio, la sua personalità accesa e passionale, il rapporto con la terra. L'infanzia del poeta fu "meravigliata" dai racconti materni che, parlando di Lucca, mantennero vivo il legame tra il poeta e la città.
Ungaretti era un poeta molto passionale e in questa poesia medita sul proprio vissuto, sulle proprie esperienze sentimentali traendone un’osservazione. Quando l’amore era vissuto dal poeta solo nella sua sessualità, nella fugacità dei rapporti e del piacere, lodava la vita; ora che sente l’approssimarsi della morte l’amore gli sembra l’unica via per perpetrare la specie umana, unica garanzia affinché il genere umano continui a sopravvivere. Dalle sue esperienze di vita, quindi, ricava una meditazione filosofica. L’amore è l’unico sentimento in grado di sconfiggere la morte, di mantenere la vita.
Ritengo la poesia di Ungaretti estremamente vivida, passionale ma anche attuale. La Lucca degli anni '30 attraversava dinamiche e problematiche ancora oggi presenti in molte aree d’Italia. L’emigrazione forzata, caratteristica del nostro Sud, dei nostri giovani, laureati e non, è uno dei grandi nei della società moderna. Il senso di attaccamento e di appartenenza che il  poeta sente forte dentro sé è lo stesso sentimento di quanti oggi sono costretti ad allontanarsi dalla propria terra. 
Le grandi guerre del Novecento avevano portato ad una decostituzione dell’Io e della propria identità, che il poeta in primis ha vissuto sulla propria pelle, "so di passato e d’avvenire quanto un uomo può saperne". Adesso Ungaretti vuole ricostruite il suo Io: "il sangue dei miei morti" è proprio il bisogno di ricercare la propria autenticità ed identità.  
Lo stato d’animo che si può cogliere nei versi finali è di pace e rassegnazione, serenità e mancanza di turbamento. Ora il poeta ha ricostruito le dinamiche della propria esistenza, conosce la sua origine e il suo destino, l’inizio e la fine, e può abbandonarsi all’idea della morte.
E’ questa una poesia autoriflessiva. E’ il bilancio di una vita, di una dura esistenza. 
Ha amato la vita con le sue passioni e i suoi turbamenti. Ha conosciuto amori mortali dettati da un "appetito maligno". Comprende ora che l’amore è "garanzia della specie", che permette cioè la sopravvivenza dell’essere, ed è quindi pronto a morire.
Il contrasto amore-morte è qui sintomatico dello struggimento interiore del poeta. L’idea dell’amore lo induce inevitabilmente ad un pensiero di morte, di rassegnazione ("alleverò tranquillamente una prole").

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venerdì 21 ottobre 2011

Recensione filosofica: il nuovo libro di Federico Sollazzo

di Maria Giovanna Farina (mg.farina2@alice.it)

Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, con la presentazione di Maria Teresa Pansera edito da Aracne, Roma 2011, è il nuovo libro del filosofo Federico Sollazzo. Scritto per studenti universitari e studiosi, il testo può rivelarsi un utile strumento anche per chi, già avvezzo alla filosofia, voglia approfondire ed ampliare i propri orizzonti sulla questione del totalitarismo, da cui il libro prende vita, per giungere a rintracciare i criteri adatti ad una pacifica convivenza umana. La interdisciplinarietà (si incontra una prospettiva filosofica, ma anche storica, politica, sociale e psicologica), di cui un filosofo dovrebbe essere sempre fautore, rende questo testo uno strumento indispensabile per lo studioso, predispone lo studente ad apprendere lontano da una rigida acquisizione delle conoscenze ed erudisce chi ama la filosofia senza esserne uno specialista. Durante la lettura ho individuato dei capisaldi della filosofia pratica come il conosci te stesso (Gnothi sauton) mutuato da Socrate direttamente dall’oracolo di Delfi che rappresenta una forma di conoscenza indispensabile per la cura di sé, propedeutica all’esercizio di un pensiero critico, come sottolinea l’autore. A proposito di totalitarismo, per bocca di Hannah Arendt, Sollazzo ci fa sapere come ad esempio il funzionario nazista sia un anti-socrate, incapace di pensare e capace solo di obbedire a qualsiasi norma. Il libro indica la via per il superamento delle problematiche socio-politiche e sottolineando la componente biologica ed emozionale dell’essere umano, ci mostra quanto sia necessario comprendere tale sua costituzione peculiare. Il libro è anche una riflessione etica e mostra il suo legame con la filosofia alla ricerca di una eticità condivisibile: almeno il minimo indispensabile in un’epoca ormai dominata dal multiculturalismo e dalla molteplicità dei valori.
In conclusione, la capacità di Federico Sollazzo di "mettere insieme" e di confrontare facendo parlare diversi punti di vista diviene anche un auspicio concretamente realizzabile da chi sa, o spera, di riuscire a fare della condivisione tra differenze un sentiero davvero percorribile.


(«L'accento di Socrate», n. 13, 2011)

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martedì 18 ottobre 2011

La corporeità in Schopenhauer

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)


Leonardo Casini, Corporeità. La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt di Schopenhauer e altri scritti, a cura di Viviana Meschesi, Mimesis, 2011

(Dalla quarta di copertina)

Il tema della corporeità è sempre stato un argomento molto caro alla riflessione di Leonardo Casini, il quale le ha dedicato una ricchissima produzione e moltissimi spunti ermeneutici. Questa pubblicazione nasce allora con l’intento di offrire al lettore una visione d’insieme, soprattutto alla luce della scoperta di uno scritto inedito, "La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt", il quale accostandosi a tutti gli articoli e saggi brevi sull’argomento, garantisce un ulteriore ed importante approfondimento.
Porre a confronto questi scritti, prodotti in un arco temporale complessivo di quasi un ventennio e per la prima volta riuniti in un’unica pubblicazione, ci permette di assistere alla trasformazione del concetto di corporeità in una vera e propria lente interpretativa e filtro ermeneutico dei molteplici stimoli e problemi che Leonardo Casini ha affrontato nel suo percorso intellettuale e filosofico, nonchè delle diverse suggestioni e posizioni via via assunte dal Nostro che spaziano dallo studio di autori quali Schopenhauer, Feuerbach e Nietzsche, al confronto col nichilismo sino alla dimensione religiosa. Se è vero che Casini già in due opere monografiche ha garantito una visione d’insieme estremamente convincente dell’argomento, è altrettanto interessante osservare la metamorfosi di questo tema in queste trattazioni quanto mai "aperte" che permettono di scorgere proprio in "quel filo conduttore del corpo" una delle sfide che Casini ha lanciato alla ramificazione di senso contemporanea.

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lunedì 17 ottobre 2011

Su Foucault

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

 Stefano Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza

(Dalla quarta di copertina)

Comprendere l'attualità attraverso le esperienze della follia, della medicina e della sessualità; ridisegnare la storia del presente mettendo in discussione i concetti tradizionali del potere, della soggettività e delle norme sociali: è questa l'avventura intellettuale di Michel Foucault ricostruita per la prima volta anche sugli inediti d'archivio

Hinrich Fink-Eitel, Foucault, Carocci 

(Dalla quarta di copertina) 

Con la sua vita e le sue opere Michel Foucault ha provocato scalpore, ha rimesso in discussione convinzioni radicate, ha provocato accesi dibattiti sia in Europa che negli Stati Uniti. 
Hinrich Fink-Eitel ne presenta un profilo vivace, completo e accessibile, introducendo in modo puntuale alle diverse fasi del suo lavoro, dalla riflessione giovanile sui temi della follia e dell'esclusione all'elaborazione di un'archeologia del sapere, dall'analisi microfisica del potere all'indagine sui modi di costituzione della soggettività e sui rapporti tra etica e politica.
Ne emerge un ritratto a tutto tondo di un grande protagonista della filosofia e delle scienze umane del Novecento  

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mercoledì 5 ottobre 2011

Totalitarismo e democrazia a confronto. Intervista a Federico Sollazzo

di (nota iniziale) Afrodita Carmen Cionchin (info@afroditacionchin.ro) e (domande) Maria Giovanna Farina (mg.farina2@alice.it)

Fenomeno universalmente riconosciuto come epocale, anche le migrazioni si inquadrano in quel più ampio quadro di questioni sociali ed etiche che solo un robusto approccio riflessivo può adeguatamente accostare. «Di fronte al fenomeno delle migrazioni – segnala Federico Sollazzo, ricercatore di Filosofia Morale e Lettore presso l’Università di Szeged (Ungheria) – ci si divide in favorevoli e contrari, con varie sfumature (come chi caritatevolmente professa il motto "aiutarli a casa loro", o chi vorrebbe applicare un filtro per selezionare solo "utili risorse umane"). Dirsi favorevoli o contrari significa però, da un lato, imporre la propria volontà sulle vite altrui, e dall’altro, ragionare nei termini di interessi politico-economici costituiti, che di volta in volta, a seconda delle loro necessità e spesso in conflitto fra loro stessi, incoraggiano, scoraggiano ed applicano griglie discriminanti alle migrazioni. Per uscire da simili problematiche, si deve allora uscire da prospettive giudicanti, favorevoli e contrarie, e lasciare che le migrazioni possano avvenire esclusivamente in base alla volontà dei migranti, rimuovendo quindi quei fenomeni che trasformano una possibile volontà in una stringente necessità, e pretendere che le strutture del mondo in cui viviamo siano calibrate per consentire ciò. Anche la Romania è un Paese, come altri dell'Est Europa, interessato da fenomeni migratori. Le migrazioni però oggi, su scala mondiale, non appaiono più "lineari" come in passato, quando erano divise in Paesi caratterizzati quasi esclusivamente da emigrazioni ed altri quasi esclusivamente da immigrazioni, essendosi oggi prodotto un nuovo fenomeno, quello di Paesi, come l’Italia, caratterizzati allo stesso tempo da un flusso in entrata (nel caso italiano, composto perlopiù da manodopera) ed uno in uscita (nel caso italiano, composto perlopiù da lavoratori intellettuali)». 
Nel suo recente libro Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, recentemente uscito per i tipi della Aracne Editrice di Roma, Sollazzo delinea un più ampio quadro di questioni – totalitarismo e democrazia, il rapporto tra cultura ed etica, il posto dell’etica nella convivenza sociale e la sacralità della vita – brevemente riprese nell’intervista realizzata da Maria Giovanna Farina.

Come scrivi nel primo capitolo del tuo nuovo libro Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia Morale, Filosofia Politica, Etica, Aracne Ed., molti pensatori del ‘900 individuano all’interno della società contemporanea "la degenerazione della capacità di pensare autonomamente". Ci spieghi cosa significa?

Mi riferisco al fatto che nella modernità cambiano le modalità del controllo sociale (il cosiddetto dominio dell’uomo sull’uomo) passando da pratiche che disciplinano la dimensione fisica, esteriore a modelli che amministrano quella coscienziale, interiore; in questi termini l’autonomia e l’autenticità del pensiero vengono meno e si può parlare di transizione dalla società della disciplina a quella del controllo.

Cosa intendi con coscienza falsamente felice?

Quello di coscienza falsamente felice è un concetto marcusiano (a me caro) che sta ad indicare come nella modernità i modelli di dominio siano stati introiettati al punto tale che, non solo non vengono riconosciuti come tali, ma vengono identificati come dei desiderata che producono quelle che il sistema (altro termine marcusiano a me caro, che ritengo però debba essere rielaborato) ci induce a chiamare gratificazioni (che sono altro dalle soddisfazioni); da qui, l’inautenticità di quest’ultime e la conseguente inautenticità, e quindi falsità, di una felicità su di esse basata.   

Nel tuo libro parli di Etica, quale posto occupa l’Etica nella convivenza sociale?

Quello di etica è un termine talmente vasto che prima di iniziare dei ragionamenti su di esso basati, bisognerebbe definire con precisione cosa intendiamo quando lo nominiamo.  Se, ad esempio e in via approssimativa, la volessimo considerare come l’insieme dei comportamenti finalizzati alla realizzazione del bene, dovremmo allora interrogarci sulla natura del bene, sul modo in cui lo intendiamo, sulle condizioni della sua pensabilità e realizzabilità, su coloro che se ne considerano i rappresentati e depositari, ecc…   

Quale filosofo, a tuo avviso, mostra la posizione più originale e proficua a livello concettuale, nel saggio che hai scritto?

Non riesco a rispondere a questo, tutti gli autori che ho citato sono per me, ciascuno a suo modo, determinanti; credo che a un certo livello non vi siano differenziazioni gerarchiche, ma di merito.

Cosa dovrebbe essere la sacralità della vita?

Come ci dice la Arendt, quello della sacralità della vita è un concetto cristiano che si è radicato a tal punto in Occidente da sopravvivere alla secolarizzazione arrivando intatto sino ai giorni nostri. Quello che io mi chiedo è se tale concetto continui ad essere propedeutico al raggiungimento di una soddisfacente esistenza, motivo per il quale il concetto stesso nacque, o se oggi esso sia diventato un ostacolo al raggiungimento di quello stato; in tal caso esso dovrebbe essere, non abbandonato, ma de-assolutizzato, inserito in un orizzonte concettuale nel quale esso non sia il fine ma un mezzo al servizio di uno scopo ulteriore alla sopravvivenza e al quale quest’ultima è subordinata.

Qual è la forza delle emozioni?

Questa prospettiva la traggo dalla Nussbaum, che attribuisce alle emozioni (ovvero all’ambito dell’emozionalità e non a quello dell’emotività) una valenza etica normativa, saldando così la dimensione delle emozioni (ciò che si prova) con quella della razionalità (pensieri e atti derivanti da ciò che si prova) ed evitando il pericolo del solipsismo (ogni emozione è fondamentalmente una compassione, un patire con-, il ché ricorda le considerazioni arendtiane sul pensare a partire dal punto di vista del prossimo).

Che rapporto esiste tra cultura ed etica?

Anche in questo caso ci riferiamo a termini talmente vasti che occorrerebbe fare una preliminare taratura linguistico-concettuale. Propedeuticamente si potrebbe dire che la cultura rappresenti l’insieme dei valori di una certa società, e l’etica l’insieme dei comportamenti legittimati da quei valori.

Che cos’è il biopotere?

E’ uno dei concetti più preziosi lasciatici in eredità da Foucault, che sta ad indicare come, in maniera del tutto innovativa rispetto al passato, nella modernità il potere attui una presa in carico della vita, del biologico, del bios, sintetizzata nella celebre frase foucaultiana secondo cui: «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte». Personalmente ritengo che questa prospettiva, unitamente al marcusiano concetto di sistema ed alle visioni di Pasolini sul potere, produca una sorta di articolato unicum indispensabile alla decifrazione della modernità.

Il totalitarismo come ha condizionato l’uomo?

Come scrivo nel libro, vorrei distinguere tra un’accezione di totalitarismo come evento politico-sociale ed una come categoria concettuale. Nel primo caso i condizionamenti riguardano l’esteriorità, tramite l’inserimento dei comportamenti in determinate pratiche disciplinatorie (che però non è affatto detto, come nel caso del fascismo italiano, che producano un’introiezione di tali modelli disciplinatori). Nel secondo caso il condizionamento consiste nell’indurre le persone ad indossare una sorta di identità preconfezionata, quindi inautentica, divenendo così dei personaggi, dei gehleniani "titolari di funzioni", dei marcusiani "uomini ad una dimensione", dei foucaultiani "normalizzati".    

Come si può realizzare una società giusta e che non "distrugga" la persona?

Per rispondere bisognerebbe preliminarmente definire dei criteri di giustizia, a loro volta, basati su una certa idea di persona. Se, semplificando, definissimo l’uomo come un insieme di potenzialità, facoltà e bisogni psico-fisici, potremmo dire che una società giusta sia quella che permette la soddisfazione di tali bisogni e l’espansione di tali facoltà. 

Alla luce dei tuoi studi, pensi che la democrazia sia davvero la miglior forma di governo? O esiste un’alternativa più consona?

A mio parere, questa è una delle questioni più urgenti da affrontare, a partire da una chiarificazione linguistco-concettuale del termine democrazia, sempre più citato a sproposito, abusato e strumentalizzato. Credo, e su questo vorrei lavorare prossimamente, che le istituzioni e i meccanismi politici siano sempre storici, e che derivino gravi problemi dal confondere un mezzo, gli automatismi politici, con il fine, la tensione alla giustizia (o meglio, alla giustezza), in quest’ottica credo che i meccanismi politici occidentali di oggi necessitino di essere profondamente ripensati e radicalmente riconfigurati (è evidente, ad esempio, come essi non assicurino nessun filtro qualitativo – essendo basati sulla falsa sinonimia tra quantità e qualità – e come riproducano quei privilegi per combattere i quali nacquero), in direzione della comprensione in essi di criteri qualitativi (che non degradino in gerarchizzazioni despotizzanti); ma per far questo, è necessario partire da una preliminare riflessione antropologica.  


(come Intervista a Federico Sollazzo, in «L'accento di Socrate», n. 14, 2011, e come Totalitarismo e democrazia a confronto. In dialogo con Federico Sollazzo, con nuova nota iniziale non titolata, in «Orizzonti culturali italo-romeni», VIII, 2011)

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