lunedì 27 settembre 2010

“Apenghe - Il figlio della Luna”

di Alessia Mocci (isideprussiana@hotmail.it)

Apenghe sorrise, anche lui subito in complicità con il fratello con cui aveva diviso lo stesso grembo, con cui aveva parlato senza parole, quando i loro cuori si erano formati.

Apenghe, il protagonista, sorride al fratello che non vedeva dalla nascita perché separati a causa della diversità di Apenghe. La complicità dei gemelli si manifesta sin dal primo sguardo anche se ben sette anni hanno separato i due.

Apenghe – Il figlio della Luna è un romanzo breve edito dalla casa editrice Rupe Mutevole Edizioni nel 2008, nella collana”Atlantide”. L’autrice è la poetessa e scrittrice Rosa Mauro, la quale con il suo lavoro poetico ha raggiunto importanti risultati in prestigiose premiazioni. Rosa Mauro è autrice di svariati e variegati volumi: Bora Bora, Magia di un viaggio, Oltre il deserto, Esmeralda Avatar, Katier, C’era una volta in Africa, Imperfetta, La favola della vita, Cantando Marte, Fra fantasia e realtà, La terra dei Canti, Un canto per Giovanni.
Apenghe – Il figlio della Luna consta della prefazione della dott.ssa Carla Mauro, otto capitoli ed un epilogo per un totale di 99 pagine. Non c’è una sola voce narrante bensì tante voci quanti personaggi, ognuno ha qualcosa da dire, ognuno vede la realtà in modo diverso e sente di poter raccontare al lettore la sua vita e le sue impressioni su Apenghe.

Il romanzo breve è ambientato in Africa e racconta di un parto gemellare molto particolare. Eve è incinta e sta per partorire, vede il futuro con un sogno ma non ne parla con le donne che avrebbero dovuto aiutarla nel mettere al mondo i suoi figli. Nascono Nzumbu e Apenghe, gemelli profondamente diversi. Nzumbu viene subito riconosciuto come erede dal padre Ndobo, mentre per Apenghe ci sono delle riserve. Ma perché Apenghe non è simile al gemello?
Il motivo della stranezza che tutti avvertono sta nel fatto che il piccolo ha una particolarità che pochi esseri umani hanno: è figlio della Luna.

Essere figli della Luna significa non poter stare alla luce del Sole e quindi vivere in maniera completamente differente dal resto della famiglia e del villaggio. Eve e Ndobo non possono presentare entrambi i figli alla comunità, portano soltanto il ridente Nzumbu e lasciano Apenghe con la sorella di Eve, Angele. Angele conosce bene il destino del piccolo e decide di adottarlo e di prendersene cura.

Il figlio della Luna così diventa il figlio di Angele. Apenghe cresce conoscendo la verità, ma non gli interessa vedere i suoi veri genitori che così facilmente l’hanno lasciato andare mentre ha qualche curiosità verso il fratello. Ma i due vivono ore del giorno diverse, Apenghe non può stare sotto i raggi solari e la sua vita si svolge la notte, girovaga nella foresta con il buio e la solitudine.

Apenghe non riusciva ancora a perdonare la sua madre naturale e non voleva che Nzumbu gliene parlasse. Ma Nzumbu a volte rubava pensieri e parole del fratello nella sua memoria per poterli poi riferire a lei, quando trovava il coraggio di ascoltarli, soprattutto quando la accompagnava alla fonte.

Dalla notte dell’incontro durante la pesca notturna i due fratelli diventano inseparabili e Nzumbu rinuncia a qualche ora di sonno per poter stare con il fratello, ma i due non riuscivano a parlare della situazione famigliare passata e presente con tranquillità sia per blocchi di Apenghe sia di Nzumbu.
È il classico esempio letterario di reietto che diviene eletto: Apenghe che tutti inizialmente non vogliono vicino diviene con il trascorrere del tempo un personaggio utile alla società e degno di profondo rispetto. Apenghe infatti aveva anche il dono di poter comunicare con la Morte, anch’essa nera come la notte e di poter accompagnare le persone morenti con tranquillità verso la fine di questa vita terrena.

La morte si sbagliava, dopotutto. Lei può evitare di portare con sé il tuo spirito, ma un uomo può comunque decidere di morire dentro. Chiude la porta del suo cuore e pian piano lo spirito indurisce e mummifica, come una foglia secca su un albero. Io lo scopersi in quei giorni, e accolsi quella come unica strada per non soffrire.

(Ricordo che i libri di Rupe Mutevole sono all’interno del circuito Feltrinelli)

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lunedì 13 settembre 2010

Gli affreschi di Lorenzetti del Palazzo Pubblico di Siena: una visione eterna ed attuale della politica



di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

Tasse che aumentano, legge bavaglio, intercettazioni non consentite, tagli indiscriminati (in particolar modo alla cultura) e un Governo che diventa sempre più oscurantista. La politica italiana, si sa, non è un modello virtuoso in generale. Troppi laissez-faire, spintarelle, inghippi e accordi sotto banco. Gli effetti del cattivo governo si ripercuotono sulla qualità della democrazia, e l’impressione generale è una strategia di destabilizzazione che miri a rendere meno trasparente e virtuosa la politica italiana. Ma può l’arte in virtù della sua “funzione pubblica” mostrarci, in prospettiva, quali sono gli effetti del cattivo e del buon governo? Può l’arte figurativa illustrarci i vizi e le virtù della politica anche in maniera allegorica, sottilmente retorica, ma vera?
Guardiamo a Siena per interrogare la politica. L’antico forse è in grado di restituirci qualcosa, di promuovere valori e virtù che la realtà non è più in grado di spiegare. Ma loro rimangono lì, le virtù, in un mondo ideale, aspettano di essere riviste e capite, introiettate, percepite come una valuta da spendere nella vita. L’arte ha anche questa funzione: la memoria di certi concetti deve accostarsi alla loro
salutatio, alla loro venerazione. Quando un’immagine non è percepita più come significato essa perde valore: l’immagine diventa un segno, qualcosa che suscita stupore senza illuminarci. Colpa delle immagini quindi? Per nulla: quando non riusciamo a dare un giusto valore alle immagini, che sono delle finestre sulla realtà, forse è il reale in pericolo e la sua costruzione di senso. Estranee alla nostra percezione, le immagini rimangono chiuse nelle loro pareti in attesa di essere riviste con uno sguardo più consapevole, in un futuro indeterminato e magari più virtuoso.
Nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena è conservato il ciclo di affreschi
Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti, datati intorno alla terza decade del XIV secolo. Nel Registro Superiore della stanza rettangolare l’intento didascalico è chiaramente illustrato. Lì dove vige il Buon Governo i cittadini vivono nell’armonia, nell’ordine. In alto a sinistra si intravede la cupola del Duomo che si differenzia per la sua inconfondibile dicromia, ed è solo il punto di partenza per una teoria di architetture che domina tutto il piano. Al centro un cerchio di cittadini suggerisce una visione concorde e armoniosa della città, dove nessuna infrazione turba il quieto vivere dei senesi. Uomini a cavallo, artigiani nelle botteghe, commercianti e operai sussiegosi nel loro operare. Nulla sconvolge l’ordine raggiunto, tutto suggerisce una calma raggiunta con l’intelligenza di una politica virtuosa.
Nell'Allegoria del Buon Governo la Giustizia è seduta sul trono, sulla sinistra, guidata dalla Sapienza, con una grande bilancia e due angeli simboli della Legge Civile e Penale. Sotto la Giustizia sta seduta a un banco la Concordia, diretta conseguenza della prima, che dà ai cittadini le corde per muovere i piatti della bilancia della Giustizia. Il Buon Governo è simboleggiato dal vegliardo in armi, protetto dalle tre Virtù teologali (Fede, Speranza e Carità), mentre ai lati del trono, su un sedile coperto da splendide stoffe, sono adagiate in varie pose le personificazioni della Giustizia, della Temperanza, della Magnanimità, della Prudenza, della Fortezza e della Pace. Famosa è la figura della Pace, mollemente semisdraiata in una posa sinuosa, con un rametto di ulivo in mano. La scena serve ad elencare, con un forte impegno didascalico, tutte le virtù di cui un sovrano dovrebbe disporre. Il messaggio di Lorenzetti è chiaro e fruibile: da un corretto esercizio delle virtù in politica dipende la felicità della cittadinanza.
Allegoria ed Effetti del Cattivo Governo è l’antitesi concettuale e visiva dell’affresco precedente. La superficie pittorica si presenta più danneggiata, come se l’usura del tempo avesse voluto cancellare le sue colpe. Un diavolo antropomorfo simboleggia la Tirannide, fiancheggiata dall’Avarizia, dalla Superbia e dalla Vanagloria. Alla sua corte partecipano il Furore, la Divisione, la Guerra, la Frode, il Tradimento e la Crudeltà. La città è crollante e piena di macerie, dove regnano le azioni più turpi e la violenza fine a se stessa. Tutto è capovolto, antitentico, speculare alla positività dell’affresco precedente; vige la legge dell’animalità, della faida, l’unica legge valida è quella del più forte. Non c’è uno spazio positivo che si possa individuare: solo il Timore vola tra le campagne, a testimoniare l’animo dei miseri che dimorano tra quelle casupole. Non esiste un governo, una legge, uno Stato retto e probo: la politica è una palude stagnante.
Ambrogio Lorenzetti sapeva di respirare un’aria nuova. Lui così colto, intellettuale, laico, non accoglie il parossismo religioso del fratello Pietro ma fa della sua arte un monumento civico imperituro. La tecnica dell’affresco è una tecnica che era già stata sperimentata largamente in Italia (pensiamo alla Cappella degli Scrovegni di Giotto) e si presta alla personalità di ogni artista, che impiega tutti gli spazi della parete come superficie pittorica. Lorenzetti è uomo senese, sa che il governo dei Nove di Siena cerca di illuminare il proprio mandato con una politica prestigiosa e operosa. Siena vuole rivaleggiare con Firenze, il suo gotico è espressione del potere politico e la dicromia bianco/nero è un motivo coloristico che trae le sue radici dalla tradizione romanica toscana. Lorenzetti è un pittore senese che respira la rinnovata
civitas della sua città, ne interpreta i desideri e le ambizioni: Siena vuole dominare, rivaleggia con Firenze, ha i mezzi per farlo e vuole estendere il suo dominio, chiede l’intercessione della Madonna come custode della politica e promuove il gotico in Italia. Non c’è dubbio quindi: Lorenzetti dipinge la città secondo un modello ideale, in lui prevale la didattica e la volontà di descrivere obiettivamente Siena, di rendere manifesta un’aspirazione collettiva e di inquadrarla in una visione d’ampio respiro. È un pittore che dipinge un oggetto di cui ha esperienza diretta, descrivendolo nel più largo orizzonte possibile (è da notare, ad esempio, il contrasto tra la piccolezza delle figure e la vastità dello spazio).
Gli affreschi ci colpiscono per la loro dimensione, per la larga prospettiva concettuale e visiva ma forse anche per la loro contemporaneità, per l’attualità dei principi sempre validi e coerenti. Che qualsiasi Governo debba governare con rettitudine è un fatto assodato ma occorre guardare gli affreschi denudandoli della loro retorica, per coglierne il messaggio profondo. La crisi che tocca una società intera non è mai un fatto isolato ma risale alle sue radici quando la colpa è della politica.
Forse guardare quest’opera d’arte non servirà ad ispirare la classe dirigente attuale ad elevarsi a principi più sani, ma la visione di questi affreschi è lungimirante e attuale insieme: quando la politica degenera gli effetti sono riscontrabili e la società ne paga le conseguenze, perché non esiste effetto senza una causa, proprio come il pesce puzza a partire dalla testa. Ma un italiano in quali di questi due affreschi riconoscerebbe la politica attuale? Domanda tendenziosa, è vero, ma dovremmo stare pur certi che non è il Timore che aleggia nelle nostre campagne e non è l’Armonia che governa le nostre città. Due visioni speculari della politica, due realtà che si confrontano nella politica: gli affreschi di Lorenzetti saranno sempre attuali ed eterni nella loro verità, ma rimangono invisibili per chi dovrebbe imparare tanto da loro.
Ma chi organizzerà una visita guidata per i nostri politici, dopo che gli abbiamo pagato tante di quelle cose?

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venerdì 3 settembre 2010

“La poesia? Sogno incarnato, sostanza immateriale … indispensabile”

di Grazia Calanna (graziacalanna@lestroverso.it)

Intervista al poeta Luigi Carotenuto

Note trafugate alla vita con l’arditezza di un equilibrista che avanza sull’impalpabile filamento del tempo. Intime corrispondenze, liriche d’emotività singolare. “Piove a dirotto sulla via di casa”, il senso di smarrimento si attorciglia alla percezione di inadeguatezza e lo spasimo, al quale stoltamente “sbarriamo le porte come se la luce servisse a nascondere la notte”, spadroneggia, “nell’identico modo di sempre”. L’amico di famiglia di Luigi Carotenuto, edito da Prova d’Autore, scandaglia gli assunti classici della versificazione i quali, questa è la peculiarità della silloge, per mezzo dell’impulsiva genialità del poeta, rifioriscono. Così, in un cosmo distinto dalla tenacia di una “precarietà” versatile, muta l’accezione del dolore, or ora, viatico d’appagamento, oltreché individuale, unanime. Agili fluiscono versi canzonatori, pragmatici. Nondimeno, rivolti all’esistenza con gli “occhi danzanti” di chi, osservando “farfalle” che “volano e si amano in due giorni”, placidamente, scioglie dubbi ancestrali.
“La poesia - sottolinea Carotenuto - è sogno incarnato, trasposizione di emozioni cristallizzate. Nasce e muore con l'uomo, resterà sempre attuale anche se deprezzata come, particolarmente è, in questo momento storico. L'attuale poesia, a parte le dovute eccezioni sempre più rare, è più un atteggiamento, una posa, un costume rozzo e ignorante che fa passare la prosa più becera e mediocre (credo che molte liste della spesa siano più poetiche) per aulico versificare. Il quotidiano inutile viene declamato a voce muta e uno pseudo ermetismo dietro il nume protettore dell'oscurità del poetare nasconde incompetenza, mancanza di idee e sentimento; non ultimo e forse il più dilettantistico e diffuso degli atteggiamenti è quello del sentimentalismo vuoto, banale, privo di senso di realtà e incantamento rivelatore (doti della vera poesia a mio parere), dove tramonti, gabbiani, solitudini, amori e gioie sono combinati insieme alla maniera della catena di montaggio e, delittuosamente, le parole vengono costrette a un “senso” unico, privo di qualunque traccia permanente”.

G. C. Sovvengono le parole di John Keats: “Se la poesia non nasce con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi, è meglio che non nasca neppure” …

L. C. “La poesia è, tra le altre cose, “memoria della vita offesa”, come aveva detto Adorno a proposito dell'arte, e in tal senso fa ed è storia ma soprattutto interpretazione della storia, è politica senza mai politicizzarsi, l'unico atteggiamento “politico” nel senso originario e più alto; ha a che fare con l'aria, essendo parente stretta della musica, è insieme canto e pensiero, apre varchi di luce, di tenebre e verità. Sgorga a getto improvviso e incontrollabile e, anche se tante volte necessita di labor limae, nasce da una rivelazione, da un accostamento di parole inedito, inconsueto, nuovo potremmo dire; allo stesso tempo, una volta nata, la poesia sembra che non poteva non trovarsi che lì, come le foglie sugli alberi di cui parla Keats”.

G. C. Pensando ai poeti italiani contemporanei, quali preferisci e per quale precipuo motivo?

L. C. “Tra i poeti contemporanei per così dire “ufficiali”, termine che spesso è soltanto sinonimo di autori dalla casa editrice più influente e nei concorsi letterari e nel tam tam pubblicitario-organizzativo, l'unica vera eccezione in Italia ritengo sia rappresentata da Andrea Zanzotto, innovatore e sperimentatore del linguaggio poetico che ha saputo e sa mantenere nei propri versi il lirismo alto della poesia classica”.

G. C. Infine, un pensiero, quello di Virginia Woolf, “è proprio vero che la poesia è deliziosa, infatti la prosa migliore è piena di poesia”, per chiederti, oltreché un parere, se ti piacerebbe dedicarti alla “prosa poetica”.

L. C. “La prosa poetica, programma ambizioso... ma la scrittura non può programmarsi più di tanto se si ha intenzione di scrivere con una certa onestà, di sicuro idealmente vorrei che la mia prosa contenesse lirismo, anzi, senza l'elemento lirico non immagino nemmeno un buon romanzo; mi piace poco questo proliferare di autori noir e giallisti, scorgo in questa passione per tali letture, tutta la miseria del genere umano, il lato voyeuristico legato al pettegolezzo e al gossip, frugare senza rispetto nelle vite (e soprattutto nelle morti) degli altri. E perché non si pensa a questa morte in vita dell'uomo? Mi appare molto più interessante indagare sul senso del nostro tempo, sul senso dell'uomo, invece che raccogliere una serie di eventi, sbattere “mostri” in prima pagina. La tragedia non è nella cronaca, ma nei motivi ontologici che spingono l'essere umano a questo tipo di cronaca, e questa serie di scrittori sono responsabili del degrado intellettuale perché non forniscono e, molte volte non hanno, elementi concettuali sui quali far meditare i lettori”.

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