giovedì 21 maggio 2009

La "crisi della capacità di giudizio"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Sono molteplici gli effetti disumanizzanti prodotti dalle varie forme di totalitarismo, e sono molteplici le descrizioni che ne sono state offerte. Con lucidità, Hannah Arendt descrive tali effetti come l’annientamento degli uomini su tre diversi livelli. Il primo è dato dall’“uccisione del soggetto di diritto che è nell’uomo”. Questa forma di uccisione rappresenta il perfezionamento totalitario dello sfruttamento e della persecuzione politica proprie dell’imperialismo e corredate dal pregiudizio culturale e razziale tipico dell’antisemitismo moderno; il suo esito è quello della sottrazione dei diritti civili, e quindi di ogni tipo di protezione legale, a determinate categorie di persone. Il secondo livello risiede nell’“uccisione nell’uomo della persona morale”. Tale uccisione si esplica tramite la mortificazione della persona ed il relativo annientamento di ogni forma di dignità umana; questo fenomeno coinvolge tanto le vittime quanto i carnefici, poiché nei
Lager entrambi risultano spogliati della propria umanità. Il terzo livello consiste nella “uccisione dell’individualità”. Anch’esso si ripercuote sia sulle vittime che sui persecutori: così come i primi risultano disumanizzati ed infine eliminati, i secondi vengono assorbiti nella massa amorfa, atomizzata e fusa, generante un’indistinta Volksgemeinschaft(1).
Dalla sovrapposizione di questi tre elementi, l’uomo risulta non solo annichilito ma anche ricostruito: si assiste così alla nascita di un nuovo tipo d’uomo, inaugurante una mutazione antropologica senza precedenti. La perdita di un mondo comune rappresenta l’esito ultimo di quei processi disumanizzanti sopra descritti: l’eclissi di una dimensione plurale e condivisa, rinchiude il singolo in un isolamento che lo rende facile preda della logica dell’ideologia, ovvero di quell’

unica facoltà della mente umana che non ha bisogno dell'io, dell'altro o del mondo per funzionare, e che è indipendente dall'esperienza come dalla riflessione(2)

Tale logica fatta di rigida consequenzialità, si potrebbe sintetizzare in un fiat veritas et pereat mundus, irresponsabile nel suo estremismo. Quindi per perpetuarsi, l’ideologia non abbisogna né dell’uomo unico nella sua irripetibilità, né tanto meno di una pluralità di uomini, ma di un mero esecutore, ecco perché la fisionomia del cittadino “ideologgizzato” è quella dell’esemplare interscambiabile e, pertanto, in sé superfluo. Il cittadino-modello dello Stato totalitario è allora quell’individuo che fugge dalle responsabilità del Selbstdenken (leit motiv di tutta l’opera arendtiana), del pensiero e del giudizio autonomo. Egli diviene per tal via incapace di distinguere la realtà dalla finzione ideologica, che permea tutta la sua esistenza, spogliandolo di un qualsiasi convincimento autentico. In lui si riscontrano l’assenza del pensiero e l’atrofia della facoltà di giudizio, non v’è alcuna traccia, insomma, di quell’antico demone socratico-platonico che costringe al dialogo con se stessi. Il funzionario (la Arendt ha in mente quello dello Stato nazista) può, dunque, essere dipinto come una sorta di anti-Socrate che, incapace di pensare, non può fare altro che obbedire “cadavericamente” alle norme del contesto in cui vive, qualsiasi esse siano.
Evidentemente, il superamento di tale problematica richiede, innanzi tutto, il ripristino di un mondo comune che oggi, nell’età della globalizzazione, potrebbe avvenire solo tramite l’esercizio di un ethos universalistico. Ed all’interno di tale mondo comune deve caparbiamente essere combattuta ogni sorta di “fuga dalla realtà” (come fa la Arendt nei confronti dell’ideologia), quale forma di cieca complicità con il male (rischio questo dal quale deve guardarsi in modo particolare la filosofia, costantemente soggetta al pericolo dell’estraniazione dalla realtà effettiva). Insomma, la Arendt sembra affermare che l’“umanità dell’uomo” non è un dato, ma un progetto, ed in quanto tale può realizzarsi solo se viene scelto e praticato attraverso l’iniziativa umana; conseguentemente, il suo primo nemico è la passività, il cedimento passivo ai processi che ci inglobano(3). Contro un simile atteggiamento passivo, dagli esiti nichilistici, l’uomo è chiamato dalla Arendt ad esercitare la propria responsabilità attraverso risorse, forse fragili, ma propriamente umane, quali sostanzialmente, la capacità di essere un inizio, l’agire ed il parlare insieme in uno spazio comune e, soprattutto, la facoltà del giudizio. Ma cosa intende, più specificatamente, la Arendt quando parla di tale facoltà?
Nella Critica della ragion pratica, Immanuel Kant, tratta della facoltà legiferatrice della ragione, asserendo che il principio legislativo, espresso nell’“imperativo categorico” (“agisci sempre in modo tale che il principio della tua azione possa diventare una legge generale”), si basa sulla necessità che il pensiero razionale sia in accordo con se stesso. Tuttavia nella Critica del giudizio, che per la Arendt è la più grande opera di filosofia politica kantiana, viene sostenuta una diversa posizione. L’accordo razionale con se stessi viene qui ritenuto insufficiente per l’edificazione di una pacifica società, obiettivo per il quale risulta invece indispensabile la capacità di saper ragionare al posto dell’altro:

Il «modo di pensare ampio», l’apertura mentale, gioca un ruolo cruciale nella Critica del giudizio. Esso si realizza «paragonando il nostro giudizio con quello degli altri, e piuttosto coi loro giudizi possibili che con quelli effettivi, e ponendoci al posto di ciascuno di loro». La facoltà da cui ciò è reso possibile si chiama immaginazione. Il pensiero critico è possibile solo là dove i punti di vista di tutti gli altri siano accessibili all’indagine. Quindi il pensiero critico, purtuttavia un’occupazione solitaria (ossia, per un’illuminista quale Kant, un Selbstdenken), non ha reciso ogni legame con «tutti gli altri»… [Con] la forza dell’immaginazione esso rende gli altri presenti e si muove così potenzialmente in uno spazio pubblico, aperto a tutti i partiti e a tutti i confronti; in altre parole, adotta la posizione del kantiano cittadino del mondo. Pensare con una mentalità larga – ciò vuol dire educare la propria immaginazione a recarsi in visita(4)

In tal modo il giudizio rimane un atto in cui il soggetto è completamente solo, un Selbstdenken, ma diviene un atto soggiacente alla comunicazione (sia anticipata, come previsione, sia effettiva) con gli altri; solo in questi termini può nascere un accordo fra gli uomini. E’ per questo che il giudizio obbliga a trascendere le proprie limitazioni individuali, l’isolamento, la solitudine, in direzione del riconoscimento della presenza degli altri. Non può esistere il giudizio senza la presenza altrui. Ne consegue che ogni giudizio, pur avendo un valore specifico, non potrà mai avere un valore assoluto: non potrà mai avere un valore superiore a quello che hanno gli uomini che hanno partecipato alla sua elaborazione.

La differenza più decisiva tra la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio è che le leggi morali della prima sono valide per tutti gli esseri capaci di intelletto e di conoscenza, mentre la validità delle regole della seconda è strettamente circoscritta agli esseri umani sulla terra […] Dice Kant: il giudizio vale «per ogni singola persona che giudica»; ma l’accento cade su «che giudica»: non vale dunque per chi non giudica o per quanti non sono membri di quel mondo pubblico nel quale appaiono gli oggetti del giudizio(5)

Arriviamo così ad un aspetto determinante di tutta l’opera arendtiana: il giudizio è tutt’altra cosa rispetto alla sapienza, tipica del filosofo:

la differenza tra l’intuizione del giudizio e il pensiero speculativo è nell’avere il primo le sue radici in quello che chiamiamo di solito il common sense, mentre l’altro lo trascende sempre. Il common sense, che i francesi chiamano in modo così suggestivo «buon senso», le bons sens, ci svela la natura del mondo, in quanto patrimonio comune a tutti noi: grazie al buon senso, i nostri cinque sensi, strettamente privati e «soggettivi» e i dati da essi forniti, possono adattarsi a un mondo non soggettivo, ma «oggettivo», che abbiamo in comune e dividiamo con altri (Il senso comune: assai presto Kant ebbe la consapevolezza di un che di non-soggettivo in quello che sembra il senso più privato e soggettivo. Tale consapevolezza si esprime così: si dà il caso che le questioni del gusto [«il bello»] «interessano solo in società… Un uomo abbandonato a se stesso in un’isoletta deserta non ornerebbe né la sua capanna, né la sua persona… [L’uomo] non è appagato da un oggetto, se non ne può sentire la soddisfazione in comune con gli altri», mentre, invece, noi disprezziamo noi stessi se bariamo al gioco, ma ci vergogniamo soltanto quando siamo scoperti. O ancora: «In materia di gusto, dobbiamo rinunciare a noi stessi a favore degli altri» o al fine di piacere agli altri – Wir müssen uns gleichsam anderen zu gefallen entsagen). Il giudicare è una delle più importanti, se non la più importante attività nella quale si manifesti il nostro «condividere il mondo con altri»(6)

Dunque, per la Arendt, il giudizio è un’intuizione che non necessita di alcuna fondazione filosofica poiché nasce unicamente dal e nel confronto con gli altri, e che è potenzialmente propria di ogni uomo in quanto essere politico.
Risulta così maggiormente comprensibile la questione, che si affronterà tra poco, relativa alla radicalità ed alla banalità del male. Infatti, per il Kant de La religione nei limiti della semplice ragione, il radikale Böse non deriva dalla negazione della ragione, ma dalla corruzione della retta facoltà di giudizio. E’ per questo che quando la Arendt parla di “assenza di pensiero”, ciò va inteso come carenza della facoltà di giudizio, ovvero della facoltà politica per antonomasia, tanto importante quanto fragile. Ma diversamente da Kant, per il quale il male radicale è sempre potenzialmente vincibile grazie all’esercizio della virtù del ragionamento e quindi imputabile all’uomo quando ciò non avviene, la Arendt introduce un’innovativa nozione, definibile come una sorta di “imputabilità non soggettiva”. Esistono, cioè, delle strutture sistemiche nelle quali diviene impossibile attribuire la colpa morale (non quella giuridica) di un crimine ad un soggetto. Per esercitarsi infatti, la facoltà di giudizio ha preliminarmente bisogno di uno spazio comune, all’interno del quale gli uomini possano entrare in contatto fra loro tramite le proprie parole ed azioni; è stata proprio la carenza di tutto ciò ad avere innescato il male totalitario. Ma se sono queste le radici del male (anche di quello smisurato), allora esso non è mai né profondo né radicale, come rileva anche Karl Jaspers in una missiva di risposta ad una precedente lettera della Arendt:

Il suo modo di vedere la cosa mi sembra un po’ inquietante (la Arendt aveva affermato che la mostruosità dei crimini nazisti rendeva impossibile una loro valutazione in chiave giuridica, opinione che poi abbandonerà, mantenendo però l’idea di una non imputabilità morale) poiché la colpa, che sopravanza ogni crimine finora concepito, assume inevitabilmente […] un connotato di grandezza – di satanica grandezza – e ciò è assolutamente estraneo ai miei sentimenti nei confronti del nazismo, così come il discorso sul “demoniaco” in Hitler e simili. Mi sembra, poiché così è, che si debbano ricondurre le cose alla loro pura e semplice banalità, alla loro piatta nullità […] I batteri provocano epidemie capaci di annientare intere popolazioni, eppure restano batteri e nulla più. Provo paura quando mi accorgo che da qualche parte sta sorgendo un mito o una leggenda, e ogni oggetto indeterminato è già un oggetto del genere […]. Nel fenomeno nazista non c’è alcuna idea né alcuna sostanza (Da ciò si può anche notare come Jaspers abbia contribuito all’elaborazione del concetto arendtiano di “banalità del male”)(7)

Andando alla ricerca delle fondamenta del male, la Arendt giunge infine alla conclusione che esso ne è sempre sprovvisto, configurandosi pertanto come un ché di superficiale, di banale. Ma ciò non ne sminuisce l’atrocità, anzi la incrementa poiché mostra quanto sia facile e comodo etichettare il male come un qualcosa di “normale”, rinvenendo quindi senza difficoltà nella popolazione, personale a sufficienza per poterlo mettere in pratica. L’essenza dell’individuo nazista non è allora quella del fanatico e/o del folle, bensì quella del “borghesuccio” che compie ligiamente il proprio dovere, all’insegna di tutte le rispettabili abitudini del buon pater familias che si cura della propria moglie e si sforza di assicurare un buon futuro ai propri figli; egli è insomma un gran lavoratore ed un onesto padre di famiglia. La sua piccolezza e banalità, risiede nell’essere capace di tutto, purché venga sollevato da qualsiasi tipo di responsabilità («Credo sia stato Péguy a chiamare il padre di famiglia “grand aventurier du 20 siècle”, ma è morto troppo presto per imparare che quel tipo d’uomo era anche il grande criminale del secolo»(8)).
Seguendo come inviata del «New Yorker» il processo di Otto Adolf Eichmann a Gerusalemme, la Arendt ha potuto trovare in quell’ufficiale nazista una conferma delle sue tesi sulla banalità del male. L’incapacità di Eichmann di riflettere in modo autonomo e critico si palesa sin dalle sue credenze religioso-mitologiche: nell’aula del Tribunale infatti, egli si definisce come un Gottgläubiger, un “credente in Dio” che ha però rotto con il cristianesimo (si rifiutò infatti di giurare sulla Bibbia), intendendo Dio come un Höherer Sinnesträger, un “Essere razionale superiore” conferente significato alla vita umana, che altrimenti ne sarebbe priva. Ora, a parte il predisporre alla sottomissione ad un’autorità superiore (sottomissione risuonante apertamente nella definizione dell’«imperativo categorico nel Terzo Reich […] agisci in una maniera tale che il Führer, se conoscesse le tue azioni, le approverebbe»(9)), che addirittura dona senso alla vita, questa concezione mitologica è interessante anche da un punto di vista terminologico: avendo infatti i nazisti mutato il termine di Befehlsempfänger, “colui che riceve ordini”, in quello di Befehlsträger, “colui che porta gli ordini”, definire Dio un Höherer Sinnesträger, significa inserirlo nella gerarchia militare, e la manipolazione linguistica è palese anche quando Eichmann definisce ripetutamente la “soluzione finale” come “evacuazione” o “trattamento speciale”, la deportazione come un “cambiamento di residenza” e la sua stessa obbedienza al Führer come una “obbedienza da cadavere” (Kadavergehorsam). Ma Eichmann non è un caso isolato, anzi la sua incapacità di giudicare quanto accade intorno a lui è tipica di tutta la massa burocratica del Reich, composta da individui perfettamente normali, benché autori di azioni mostruose:

Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali […] Non era uno Jago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” come Riccardo III […] Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro difensori – che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male(10)

La figura di Eichmann mette quindi in evidenza la pericolosità dell’incapacità di elaborare un autonomo e critico giudizio, l’assenza, o meglio, la corruzione del quale provoca allontanamento ed estraniazione dalla realtà effettiva; in quell’ufficiale nazista trovano applicazione e conferma (semmai ne avessero bisogno) i concetti chiave dell’etica socratica, secondo cui “nessuno pecca volontariamente” e “chi fa il male, lo fa per ignoranza del bene”: il male compiuto da Eichmann nasce dalla mancata comprensione della natura delle sue azioni (egli agì sempre eseguendo gli ordini, indipendentemente da quali essi fossero), che la Arendt definisce più dettagliatamente, rispetto al socratico termine di ignoranza, come una crisi della facoltà di giudizio, sempre possibile laddove venga meno uno spazio pubblico condiviso dagli uomini(11). Non a caso, anche negli ultimi istanti di vita prima dell’esecuzione, il gerarca nazista pronuncia meccanicamente ancora una volta quelle pompose frasi di rito che lo hanno accompagnato lungo tutta la sua carriera.

In quegli ultimi minuti era come se lo stesso Eichmann traesse il bilancio della lunga lezione di abiezione umana alla quale avevamo assistito. Il bilancio della spaventosa banalità del male di fronte alla quale la parola si blocca e il pensiero fallisce(12)

Ma la concezione arendtiana della banalità del male contiene in sé anche le possibilità del suo superamento, che può giungere solo interrogandosi sul significato del pensare.

La lezione che il Terzo Reich ci ha impartito riguarda la facilità con cui gli individui possono conformarsi a nuove regole, e questo indipendentemente dal fatto che esse prescrivano un “devi uccidere!” piuttosto che il suo contrario. I peggiori criminali del XX secolo sono stati uomini che non hanno pensato. Una conclusione sulla quale meditare, per non convivere in modo banale con l’assassino in cui ciascuno di noi potrebbe mutarsi(13)

Gli assassini non si sono mai percepiti come tali, paradossalmente, il più grande assassinio di massa della storia non è stato commesso da assassini, ma da professionisti che hanno svolto egregiamente e diligentemente il proprio dovere “lavorativo”. E ciò vale tanto per chi gli ordini li esegue, quanto per chi li progetta, anch’egli infatti si percepisce come un mero esecutore di un progetto superiore, ovvero, arendtianamente, come un esecutore di una ideologia, il ché rende del tutto superflua qualsiasi forma di confronto con gli altri, unica strada, invece, che permetterebbe una sana espansione della facoltà di giudizio. Se è questa la ragione di fondo, non solo della Shoah, ma di ogni atrocità, allora noi tutti dobbiamo guardarci dal ritenere queste forme di violenza delle parentesi della storia umana, oggi irripetibili. Il rischio del riprodursi, anche se in nuove vesti, di fenomeni analoghi è insito nella costante presenza, anche e forse soprattutto nel civile Occidente, di movimenti e partiti dichiaratamente e orgogliosamente intolleranti nei confronti degli “ebrei di turno”.

1) Per la descrizione di questi tre livelli di disumanizzazione cfr. H Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Torino 1999, pp. 612-629.
2) Ibidem, p. 654; per questo «visti attraverso le lenti dell’ideologia i campi hanno quasi il difetto di avere troppo senso, di attuare la dottrina con troppa coerenza», Ibidem, p. 626.
3) Questa prospettiva arendtiana ha molti punti di contatto con quella delineata da Martha Nussbaum in La fragilità del bene: come per la Arendt, anche per la Nussbaum, il destino dell’uomo è quello di dover agire all’interno di circostanze contingenti, rispetto alle quali ogni soggetto è chiamato a pronunciarsi, senza lasciarsene travolgere.
4) H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, p. 551, parentesi mia; ed ancora: «Il gusto è questo “senso comunitario” (gemeinschaftlicher Sinn)», Ibidem, p. 563.
5) H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 550, e La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p. 283.
6) H. Arendt, La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tra passato e futuro, cit., p. 284, testo fra parentesi: H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 561.
7) H. Arendt – K. Jaspers, Carteggio, Feltrinelli, Milano 1989, p. 71, parentesi mie. Sulla transizione dalla radicalità alla banalità del male cfr. S. Forti, Banalità del male, in P. P. Portinaro, I concetti del male, Einaudi, Torino 2002: «l’obbedienza viene elevata a virtù […] diventa un fine in sé; uno stato permanente in cui le pecore perseguono il bene sottomettendosi costantemente ai loro pastori», p. 43.
8) H. Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale, in Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano 2003, p. 71; per le riflessioni della Arendt sulla mentalità tedesca del periodo bellico cfr. The Aftermath of Nazi-Rule, in «Commentary», 10/10/50, ora in Zur Zeit, Rotbuch, Berlin 1986.
9) H. Frank, Die Technik des Staates, Deutscher Rechtsverlag, Berlin/Leipzig/Wien 1942, pp. 14-15, trad. mia.
10) H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1999., pp. 281, 290 e 282. E’ interessante notare come tale atteggiamento sia riscontrabile anche nell’odierno mondo del lavoro in cui, spesso, il lavoratore ignora il senso complessivo della propria attività, cfr. H Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1991, p. 263, nota 6; su tale questione cfr. anche la visione gehleniana dell’uomo come “titolare di funzioni” in A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma 2003, soprattutto il Cap. VIII: Automatismi.
11) E’ però da specificare che la Arendt intende lo spazio pubblico come un luogo fisico nel quale gli uomini possano fisicamente incontrarsi; cosa accade nel momento in cui tale spazio pubblico diviene virtuale, telematico, lo hanno mostrato, per primi, gli autori della prima Scuola di Francoforte: gli strumenti tecnologici che filtrano i rapporti umani, sottomettono gli stessi ai principi della razionalità tecnologica.
12) H. Arendt, La banalità del male, cit, p. 259.
13) B. Assy, Eichmann, Riccardo III e Socrate, in E. Donaggio – D. Scalzo (cura), Sul male, Meltemi, Roma 2003, p. 179; cfr. anche C. Vallee, Hannah Arendt: Socrate e la questione del totalitarismo, Palomar, Bari 2006.

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