mercoledì 15 aprile 2009

Dall’artista produttore all’artista ricercatore

di Gustavo Sánchez Velandia (gustavo.sanchez@ehess.fr; I di 4)

Non basta aprire la finestra
per vedere i campi e il fiume.
Non basta non essere cieco
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non aver alcuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, come una spelonca.
C'è solo una finestra chiusa, e tutto il mondo fuori;
E un sogno di ciò che si vedrebbe se la finestra si aprisse,
che mai è ciò che si vede quando la finestra si apre.

Fernando Pessoa

Mentre il sofista è piuttosto colui che possiede la scienza della politica, Socrate rovescia i termini; se è vero che l’oggetto della politica è la coppia amico-nemico, Socrate pratica qualcosa come la politica del sapere - almeno stando all’etimologia della parola “filosofia”. Non è solo questione di nome: Socrate sa che il discorso è allo stesso tempo il suo più grande amico ed il suo più terribile nemico: “Socrate, è vero, è appassionato della parola, del discorso orale e del dialogo. Ma sta di fatto che non meno appassionatamente vuole mostrare i limiti del linguaggio.” (Hadot 2005, p. 97) Mentre il sofista prova a dominare le relazioni nella polis attraverso il discorso, il filosofo prova a limitare il discorso liberando la relazionalità. Una relazionalità che esula dal discorso stesso anche se il discorso essenzialmente - ma appunto solo essenzialmente - la rispecchia.
Fedeli a questa tradizione filosofica del rovesciamento, adesso che ci disponiamo a esaminare le pratiche politiche di alcuni artisti latinoamericani, non proveremo ad interpretarle da una prospettiva filosofica e neanche ci limiteremo a paragonare la filosofia all’arte dichiarando senz’altro che la pratica filosofica è una pratica artistica, bensì proveremo a guardare la teoresi dal punto di vista dell’artista cercando di problematizzare il rapporto egemone che la filosofia esercita su tale attività (l’attivita teoretica) e tentando di formulare le domande che grazie a tale rovesciamento vengono poste alla filosofia e che mettono il discorso davanti alla sua faccia occulta: le gerarchie fra i corpi che esso riproduce ingenuamente.

E’ necessario che qualcuno svincoli il tuo corpo dalle pratiche quotidiane dello sguardo.
Anche se Lucas Ochoa iniziò a dipingere ai dieci anni, egli dice che cominciò a comprendere la singolarità dell’arte ai diciannove anni quando conobbe Nelly Rojas, la sua maestra di disegno all‘Universidad de los Andes a Bogotà. Nelly Rojas insegnava che imparare a disegnare è imparare a guardare.
Abitualmente tendiamo a guardare in modo analitico: vediamo degli elementi separati collocati nello spazio e riconosciamo le loro forme ma facciamo astrazione delle relazioni che esistono fra quegli elementi. Per opposizione alle forme che riconosciamo definiamo, quindi, uno spazio vuoto nel quale propendiamo a non vedere nulla. Lo spazio nelle sue particolari forme di presentarsi rimane latente. Ci sembra che riconoscere certe forme ci aiuti a comprendere ciò che guardiamo, ma allo stesso tempo vediamo solo quelle forme, imponendo alla realtà che incontriamo un modello che precede tale incontro, occultando quanto in essa si presenta ogni volta in modo diverso e perdendo la possibilità di cogliere la relazionalità, la simultaneità. Rojas proponeva, per tanto, degli esercizi che mettevano in crisi questo modo analitico di guardare e attivavano sguardi più olistici. Sebbene qualche volta si riferisse a questi esercizi con l’espressione “disegnare con il lato destro del cervello”, non ne parlava molto. Alcuni di questo esercizi erano: disegnare gli spazi vuoti, disegnare senza guardare la carta, disegnare con la mano sinistra, riprodurre immagini guardandole al rovescio...
Dopo alcuni mesi di esercitazioni con Rojas, Lucas Ochoa percepì dei cambiamenti profondi nel suo modo di vedere. Egli ricorda due eventi in particolare. Il primo avvenne quando, realizzando un autoritratto, si rese conto che nonostante si guardasse tutte le mattine allo specchio, non conosceva il suo volto. Più precisamente rimase fortemente colpito dal suo profilo. Fino ad allora, fra tutti i profili che potevano coincidere con la sua immagine frontale, egli aveva sempre scelto un profilo stereotipato, forse persino infantile. Non era solo colpa della vista frontale: egli era da molti anni in grado di decodificare la profondità partendo dalle ombre ma evidentemente non riusciva a osservare insieme le diverse informazioni che percepiva e preferiva sottomettere il tutto ad un’immagine di sé che trovava gradevole. All’improvviso vide il suo volto prendere forma nella sua totalità e si sentì mostruoso. Dopo quest’esperienza si rese conto che anche il modo in cui guardava i volti degli altri era cambiato. Non vedeva più nasi, occhi, bocche ma volti che sgrovigliavano le loro forme nel tempo.
Il secondo evento che ricorda, ha a che fare con quest’illusione ottica (una delle particolari forme dell’illusione Müller-Lyer):
Lucas Ochoa sfogliava un giorno un libro sulla percezione e si accorse che questa non gli produceva nessun effetto. In teoria davanti a quell’illusione il nostro sguardo si lascia ingannare credendo che uno dei segmenti (A) sia più corto dell’altro (B) ma Ochoa li vide esattamente uguali. Eppure molti anni prima di aver studiato con Nelly Rojas egli si era già trovato davanti a quest’immagine e aveva creduto che il segmento A fosse più corto del segmento B. Alcuni mesi dopo l’evento del libro di percezione ebbe l’opportunità di guardare la stessa immagine proiettata su un grande schermo per accorgersi con sorpresa che il suo sguardo era tornato a percepire il segmento A più corto. Corse a cercarne una versione piccola e comprovò con gioia che percepiva i segmenti della stessa misura. Comprovò inoltre che alcune illusioni continuavano a confondere il suo sguardo ed altre no.
Siamo automaticamente predisposti a guardare i disegni come se si trattasse di proiezioni bidimensionali di situazioni tridimensionali e anche se veniamo informati che non è pertinente interpretarli in questo modo, non riusciamo a non farlo; è necessario esercitarci a guardare in modo diverso attraverso determinate pratiche come quelle proposte da Rojas. Ecco perché la prima illusione non confondeva lo sguardo di Lucas Ochoa solo ad una scala ridotta: egli si era sempre esercitato con il metodo di Rojas su modelli che si trovavano ad una corta distanza.
Ma perché questo bisogno dello sguardo di interpretare a priori segni bidimensionali come proiezioni di oggetti tridimensionali? E’ vero che ciò che percepiamo nella retina è appunto un’immagine bidimensionale. Ma è vero anche che abbiamo due occhi che si muovono all’interno di un corpo in movimento, all’interno di un mondo in movimento. La visione stereoscopica il movimento ed il cambiamento costante del nostro punto di vista nella vita quotidiana dovrebbero bastare a guidare lo sguardo. Risulta, per tanto, difficile capire perché esso si ostini ad attivare automaticamente la grammatica della prospettiva davanti alle immagini bidimensionali. A meno che fra le immagini con le quali abbiamo a che fare la percentuale di quelle che effettivamente vanno interpretate come proiezioni di situazioni tridimensionale fosse talmente alta da rendere scontata la grammatica della prospettiva. Ochoa si chiese, quindi, se quello che potremmo chiamare un pregiudizio prospettico non fosse piuttosto un fenomeno situato storicamente e culturalmente e non una legge deterministica come la psicologia della percezione l’interpreta solitamente (Sebbene Richard Gregory, Profesore emerito di Neuropsicologia all’università di Bristol, avesse già mostrato negli anni settanta che molte di queste illusioni hanno a che fare con la grammatica della prospettiva, è generalmente accettato che questi siano meccanismi universali che competono allo stesso modo a tutti gli esseri umani indipendentemente dal loro ambiente culturale).
Tuttavia davanti a immagini che non contengono elementi specificamente appartenenti alla grammatica della prospettiva, lo sguardo non attiva automaticamente tale pregiudizio, neanche là dove tali immagini possano ricondursi effettivamente ad una proiezione bidimensionale di una situazione tridimensionale.
Il meccanismo si attiva automaticamente quando la relazione fra certi elementi conforma una situazione che potrebbe essere interpretata a partire dalla grammatica della prospettiva e questo nonostante l’immagine nella sua globalità o la situazione in cui è inserita ci informino che non è pertinente avviare un’interpretazione prospettica o che non abbiamo le informazioni necessarie per farlo. Il pregiudizio prospettico non è causato, dunque, solo dall’abitudine, ma dal modo in cui quell’abitudine viene resa possibile dallo sguardo analitico, ovvero da una predisposizione a leggere partendo dagli elementi (e da una relazionalità circoscritta: una riga da sola non ci dice molto, ma ci bastano due righe non parallele per pensare ad un piano che formerebbe un angolo con il piano del disegno) e non dall’insieme (e da una relazionalità aperta). La singolarità che Ochoa cominciò a percepire nell’arte, a partire dall’incontro con Nelly Rojas, aveva a che fare, quindi, con la possibilità di trasformare il modo in cui ci relazioniamo alle rappresentazioni e alle loro logiche o grammatiche particolari. Vedeva, quindi, nell’arte, la possibilità di un tipo di conoscenza e di un tipo di pensiero, per così dire trans-rappresentazionali o trans-grammaticali, ovvero, la possibilità di sviluppare modi dinamici di rapportarsi ai codici partendo da una pratica concreta e corporale che si muove verso quello che per ogni codice particolare è in-sensato, nullo, esteriore alla sua totalità grammaticale sebbene persino lo sorregga (nel caso della prospettiva lo spazio vuoto).

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