lunedì 23 marzo 2009

Manifesto per un progetto possibile

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Originariamente nata come una riflessione vertente sul concetto di totalitarismo, sulle sue cause e conseguenze e sulla sua possibile definizione, il pensiero si è poi (quasi inevitabilmente) espanso, allargandosi a quelle tematiche che costituiscono la naturale prosecuzione di quella prima riflessione. Il concetto di totalitarismo, infatti, richiama ineluttabilmente quello del suo, almeno apparente, opposto: la democrazia; sicché, il ragionamento sull’uno apparirebbe menomato senza quello sull’altra. A sua volta, la riflessione sulla democrazia apre il campo alle più recenti argomentazioni etiche, volte alla ricerca di una pacifica, armoniosa e soddisfacente convivenza umana, al punto tale che il passaggio dall’analisi dell’una (la democrazia) a quella delle altre (le nuove correnti etiche), appare come la declinazione dello stesso discorso, quello sulla convivenza umana, nei suoi due complementari versanti: quello politico e quello morale. Scopo di queste riflessioni, è quello di tentare di far confluire questo percorso fatto di categorie concettuali necessariamente inanellate le une alle altre, nella proposta di uno stile di vita, sinteticamente definibile con la formula di “sintesi disgiuntiva”, teso all’individuazione di un possibile percorso di pacificazione sociale, basato su di una “moralità minima condivisibile”, affondante le sue radici nella biologia umana e nelle emozioni.

La scelta del totalitarismo (inteso nel suo profilo teorico e pratico, filosofico e storico) come punto d’avvio del ragionamento trova la sua motivazione nel fatto che esso rappresenta la prima forma di regime sociale repressivo a darsi in un momento storico (l’inizio del XX sec.) in cui tale repressione non risulta più motivabile e comprensibile nei termini di lotta per la sopravvivenza; conseguentemente, le motivazioni di una simile oppressione e coercizione necessitano di essere chiarite. Ora, confrontando le analisi di Hannah Arendt (concentratasi quasi esclusivamente sul modello totalitario del nazionalsocialismo), con gli studi di “teoria critica della società” della prima Scuola di Francoforte (sostanzialmente riconducibili ad autori come Theodor W. Adorno, Max Horkheimer ed Herbert Marcuse, osservanti prevalentemente le occidentali società del cosiddetto “benessere”), si nota come la prima si dedichi alla descrizione delle caratteristiche pratiche, delle manifestazioni storiche tramite le quali si è mostrato il fenomeno del totalitarismo novecentesco (imposizione violenta di un’ideologia sulla realtà, presenza di un partito unico, controllo dei mezzi di comunicazione ed eliminazione fisica dei dissidenti), comprendendo in esse anche le “manifestazioni psicologiche”, come la perdita della “facoltà di giudizio”, mentre i secondi si concentrino sulle ragioni filosofiche che rendono possibile un qualsiasi sistema repressivo (soffocamento delle facoltà psico-fisiche umane, trionfo della razionalità strumentale, del consumismo e dell’industria del divertimento e dell’informazione, “unidimensionalità”), indipendentemente dalle modalità contingenti tramite le quali si manifesta tale repressività. Pertanto, l’integrazione di queste due diverse prospettive consente di osservare il fenomeno del totalitarismo/autoritarsimo nella sua totalità: gli studi arendtiani rivelano come il totalitarismo si è originariamente manifestato, quelli francofortesi in che cosa consista la sua essenza. Inoltre, continuando a seguire il percorso della riflessione filosofica occidentale sulle forme moderne e contemporanee della convivenza umana, si devono tenere presenti due autori italiani quali Pier Paolo Pasolini ed Antonio Negri che, seppure da punti di vista diversi (morale l’uno, politico l’altro), denunciano l’avvento di nuove forme di mali sociali che designano, rispettivamente, come l’era del “nuovo fascismo consumistico” e dell’Impero.
A quest’altezza del discorso, dopo avere identificato quella che è stata la malattia sociale par excellence dell’era contemporanea, ci si può dedicare all'osservazione della sua alternativa, formalmente identificata con il termine di democrazia, che racchiude in sé un’amplissima gamma di significati, sfumature e contenuti, per descrivere i quali si dovrebbe passare attraverso un determinato percorso di riflessione. Non casualmente, il primo passo ritengo debba consistere nel chiarire l’antico ed originario senso della pratica della democrazia, così come essa era vissuta nelle pòleis greche: condivisione di parole e azioni fra uomini, basata sul metodo della partecipazione della più ampia parte possibile dei cittadini ai processi decisionali e della persuasione, al fine, però, non di tanto di contribuire all’amministrazione della cosa pubblica, quanto piuttosto di lasciare nella storia un segno duraturo del nostro passaggio nel mondo; temi che ha nitidamente sviscerato la Arendt. Successivamente, penso si dovrebbe chiarire lo status che la democrazia dovrebbe darsi per potersi considerare tale: quello sinteticamente definibile come “società aperta”; termine coniato da Karl R. Popper. Infine, si dovrebbero tenere in considerazione le modalità con le quali, una volta venutasi a creare un’autentica democrazia, la si possa difendere da qualsiasi rischio degenerativo, in particolare da un pericolo endogeno: quello di una sua dissoluzione dall’interno; tema centrale nell’opera di Norberto Bobbio.
Ora, nella filosofia contemporanea le proposte relative all’edificazione di una società ideale (o quantomeno migliore di quella esistente) non si muovono esclusivamente su un piano politico, che abbiamo visto fare principalmente capo al termine di democrazia, ma anche su uno morale, imperniato su concetti chiave come, ad esempio, quelli di libertà, uguaglianza e giustizia. In tale versante del ragionamento l’accento è posto non tanto sui meccanismi politici regolanti la convivenza, quanto sul comportamento che ciascun uomo può adottare relativamente alle dinamiche della convivenza stessa; anche nell’analisi di tali questioni etiche è necessario seguire uno specifico percorso riflessivo. Innanzitutto, appare doveroso prendere le mosse dal movimento di “riabilitazione della filosofia pratica”: esso infatti ha rinnovato l’interesse della filosofia per le questioni giuridico-politiche, affrontate però non da una prospettiva “istituzionale”, bensì morale, inerente cioè al comportamento umano; lucide e puntuali sono in questo ambito le riflessioni di Hans-Georg Gadamer, Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas. Risulta poi interessante accostare fra di loro tre diverse correnti etiche che disegnano un arco concettuale che va da un estremo al suo opposto, ma non per questo contrario: l’individualismo, rimandante, ovviamente, a teorie liberali, il neocontrattualismo, che si pone come un tentativo conciliatorio fra differenti istanze morali, ed il comunitarismo, sorta di “alter ego” dell’individualismo, esaltante le caratteristiche di ogni singola comunità, in luogo di quelle di ogni singolo individuo; in questi ambiti i principali autori di riferimento sono, rispettivamente, Robert Nozick e Friedrich A. von Hayek, John Rawls, Alasdair MacIntyre e Charles Taylor. Infine, va concesso spazio anche a quei movimenti etici rimandanti a dei veri e propri stili di vita: la Naturphilosophie, che nasce come monito per le conseguenze delle azioni del moderno “Prometeo scatenato”, ed il pensiero dell’alterità, proposta di un nuovo modo di relazionarsi al prossimo; questioni affrontate, rispettivamente, da Hans Jonas e dal pensiero francese contemporaneo (Emmanuel Lévinas, Paul Ricœur e Jacques Derrida).
Si giunge così all’ultima fase della riflessione, quella propositiva, nella quale si vuole evidenziare come le speculazioni politiche e morali relative all’edificazione ed al miglioramento della società, per non collassare su loro stesse, necessitino di solide fondamenta antropologiche: solo a partire da una determinata immagine dell’uomo, si può costruire la dimora a lui più idonea. Si pone quindi il problema del chiarimento della costituzione antropologica elementare, basilare, contenente cioè quegli elementi che, relativamente all’essere umano, possono essere considerati universali. Ora, essendo l’uomo una sorta di allotropo empirico-spirituale, tali “universalizzabili” sono rintracciabili nella biologia (come sostiene Eugenio Lecaldano, proponente l’edificazione di un’etica su base biologica) e nelle emozioni (come afferma Martha Nussbaum, che vede nelle emozioni l’origine stessa dell’etica). In altre parole, ogni uomo è in possesso di necessità e capacità psico-fisiche, emozionali e fisiologiche, dalla cui soddisfazione dipende sia la sopravvivenza che la realizzazione di un’esistenza autenticamente appagante. Il riconoscimento di tutto ciò costituisce una sorta di collante morale, di etica minima condivisa, che, conseguentemente, cancella l’idea del pluralismo etico (ad una struttura antropologica basilare, corrisponde una possibile etica minima), ma non quella del pluralismo culturale, inteso come una pluralità di modi storicamente diversi, di realizzazione della stessa etica minima. Per decifrare un simile scenario, negli ultimi anni si è proposto di utilizzare lo strumento concettuale del multiculturalismo, il quale però sembra contenere in sé un pericolo ed un’imprecisione. Il pericolo, risiede nel fatto che il multiculturalismo sembra non rappresentare altro che la faccia liberale del fondamentalismo: entrambi condividono la visione della società come un sistema di ghetti e di logiche identitarie, mediabili solo tramite la violenza fisica e/o la giurisprudenza. L’imprecisione, consiste nella descrizione inadeguata che viene offerta dell’attuale scenario globale (e globalizzato), il quale risulta meglio descrivibile con il termine di “interculturalismo”: correntemente, infatti, non si ha l’esistenza di una cultura accanto ad un’altra, quanto la presenza di una cultura all’interno di un’altra. Il confronto fra culture diverse deve allora svolgersi all’insegna di un altro concetto, ovvero quello di una sorta di “sintesi disgiuntiva”, in cui proprio l’inassimilabilità delle identità costituisce il trait d’union fra le stesse. In questa nuova prospettiva l’idea di tolleranza appare antiquata e pertanto sostituita da quella di rispetto: solo rispettando l’altro si può innescare con lui un’autentica comunicazione in cui l’identità culturale di ciascuno viene contaminata, inquinata e quindi arricchita da elementi esogeni. Verrebbe così ad essere preservata sia l’unicità e, conseguentemente, l’universalità dell’etica che la pluralità (ma non per questo l’incomparabilità) delle culture.

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1 commento:

  1. " ... rispettando l’altro si può innescare ... un’autentica comunicazione in cui l’identità culturale di ciascuno viene contaminata, inquinata e quindi arricchita da elementi esogeni" ... nulla di più vero!

    Grazia

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