martedì 22 dicembre 2009

Bloch vs. Anders, speranza vs. pessimismo


di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il pensiero di Ernst Bloch e quello di Günter Anders (conosciutisi a New York negli anni Quaranta, entrambi in fuga dalla Germania nazista) si trovano in evidente contrapposizione, eppure, a ben guardare, è presente un significativo punto di contatto fra i due; ma procediamo con ordine.
Anders, discepolo di Heidegger e studioso di Husserl, lo si può considerare come un “profeta” dell’autodistruzione dell’umanità. In Della pseudoconcretezza della filosofia fenomenologica di Heidegger, infatti, il progresso viene caratterizzato nella sua essenza come autodistruzione, come una strategia di sterminio che può verosimilmente trovare il suo apice in un’apocalisse nucleare, e che ha già lasciato delle significative tracce nella storia con fatti quali Auschwitz e la bomba nucleare, la cui messa a punto segna, come scrive in Hiroshima è dappertutto, l’inizio dell’era apocalittica. Per lui, il Novecento è il secolo della III rivoluzione industriale, producente degli esiti disumanizzanti: il dominio dell’uomo da parte della tecnica, come scrive ne L’uomo è antiquato; in questo scenario, qualsiasi prospettiva di miglioramento appare ai suoi occhi come uno “sperantismo gratuito”, così infatti definisce il pensiero di Bloch. Quella di Anders è, insomma, un’antropologia negativa, nella quale l’uomo viene caratterizzato a partire dai suoi limiti contingenti, primo fra tutti, a maggior ragione in un’epoca “tecnologicamente disumanizzante”, quello di ignorare il significato e le conseguenze delle proprie azioni. Per questo egli etichetta il pensiero di Bloch come una forma di “speranza gratuita”: un’umanità che non comprende il presente, non è in grado di costruire un futuro consapevole.
Il principio speranza di Bloch, è sia una critica a chi diffonde una “paura paralizzante” del futuro, sia un progetto definibile come una docta spes: a partire dalla comprensione del presente, si può elaborare una filosofia della prassi finalizzata a generare dei cambiamenti concreti e realistici, che cancellino tutte le situazioni umilianti l’uomo. In altri termini, il blochiano principio speranza è un liberamento delle potenzialità umane, teso al superamento di tutto ciò che mortifica l’uomo stesso, e (e in ciò risiede la sua concretezza) tale progetto deve basarsi sulle potenzialità realisticamente presenti in una situazione contingente, pertanto, se si vuole definire il pensiero di Bloch come un’utopia, la si deve intendere non come una visione dell’irrealizzabile, bensì come un sguardo sul non ancora realizzato (ma non per questo impossibile da realizzare), ed i contenuti di tale “utopia” vanno sviluppati in un tempo che, ad un’analisi superficiale può sembrare di passiva attesa, ma che è invece di attiva progettazione, costruzione, come scrive in Experimentum mundi.
Ora, come si diceva, queste prospettive così divergenti, hanno però una significativa convergenza: la necessità (implicita in Anders, esplicita in Bloch) della resistenza verso qualsiasi forma di annichilimento delle potenzialità, facoltà umane.

("Periodico Italiano webmagazine", 21/11/2009)

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lunedì 21 dicembre 2009

La vita di “A Serious Man”

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

A Serious Man; regia di Ethan e Joel Coen; interpreti Richard Kind, Fred Melamed, Sari Lennick, Adam Arkin, Aaron Wolff, Jessica McManus, Brent Braunschweig, David Kang, Benjy Portnoe, Jack Swiler, Andrew S. Lentz, Jon Kaminski Jr, Ari Hoptman, George Wyner, Fyvush Finkel, Katherine Borowitz, Steve Park, Amy Landecker, Allen Lewis Rickman, Raye Birk, Peter Breitmayer, Stephen Park, Simon Helberg, Alan Mandell; 105 min ca.
La trama di questo ultimo film dei fratelli Coen è abbastanza semplice, non lo è però la sua interpretazione; procediamo con ordine.
Trama. Nel 1967 a St. Louis Park (Minnesota) vive Larry Gopnik, di origini ebraiche, professore di fisica presso l’università del Midwest, dove è in lizza per diventare di ruolo. Il film narra una fase particolare della vita di Larry, la fase in cui una serie di vicissitudini gli mostrano che nella sua vita nulla è come lui credeva che fosse: la moglie Judith gli chiede improvvisamente il divorzio, un divorzio rituale cosicché essa possa risposarsi nella fede con l’amico di famiglia Sy Ableman (vedovo da tre anni, ed in cerca di chi possa sostituire la fu moglie), costringendolo, inoltre, a trasferirsi in un motel, insieme al fratello maggiore (disoccupato e un po’ disadattato e, come Larry inaspettatamente scoprirà, con il vizio del gioco d’azzardo e probabilmente omosessuale) che, in attesa di una sistemazione, dorme nel salone dello stesso Larry; i figli gli alleggeriscono il portafogli, il maschio per acquistare marijuana, la femmina per farsi una rinoplastica; un suo studente coreano (apparentemente integerrimo) cerca di corromperlo e poi lo minaccia di denunciarlo per diffamazione (il tutto con il supporto del padre), per indurlo a promuoverlo, modificando il verbale di un esame al quale era stato bocciato; il vicino di casa (apparentemente una brava persona) è invadente e scontroso, ed ha una moglie che turba il già precario equilibrio interiore di Larry; e così via in un turbine di eventi vari, l’ultimo dei quali, per ragioni interpretative, sarà opportuno citare successivamente.
(Una possibile) Interpretazione. Mentre la serie delle suddette vicissitudini si abbatte sulla sua vita, Larry ripete continuamente “io non ho fatto niente”, volendo così esprimere quella che lui ritiene essere l’ingiustizia di un fato che si accanisce contro chi non ha nessuna colpa, poiché “non ha fatto niente”. Quello che però a Larry sfugge, è che evidentemente lo stesso “non far niente” è di per sé una colpa, ed anche grande, poiché è un’accettazione passiva del mondo (quali che siano i suoi contenuti), una rinuncia al tentativo di dare il proprio contributo, mettendosi così in discussione, alla (ri)costruzione del mondo, e quando, passivamente, non ci si mette in gioco, è inevitabile che non si sia noi, ma qualcun altro (il prossimo o il caso) a determinare il nostro futuro. E’ interessante, infine, l’ultima delle vicissitudini di Larry: proprio quando compie un gesto non da uomo serio, gli arriva una telefonata risolutiva, come a dire che, stante la precarietà della vita, spendere la propria per cercare di calarsi nel cliché di “un uomo serio”, non significa altro che sprecarla.

("Periodico Italiano webmagazine", 19/12/2009)



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mercoledì 16 dicembre 2009

Marcuse, "Eros e civiltà"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi

Il pensiero di Freud contiene una “teoria della civiltà”, secondo cui quest’ultima inizia quando gli uomini sostituiscono al “principio del piacere” il “principio della realtà”, e con esso un “principio di prestazione”, in base al quale si opera una repressione istintuale e un differimento dei piaceri (che vengono sublimati), in favore di un’ordinata convivenza. Marcuse, pur essendo d’accordo con tale teoria, ritiene però che in questa specifica civiltà in cui viviamo vi sia un surplus di repressione, che colpisce particolarmente l’Eros; non mero impulso sessuale, ma istinto vitale e creativo per eccellenza.

("Periodico Italiano", 15/12/2009)

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sabato 12 dicembre 2009

Moravia, "1934"

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

Invito alla lettura.


Un romanzo esemplare di appena sedici capitoli in cui Moravia parla della disperazione come unica legge di vita, descrivendo e denunciando implicitamente lo spirito della borghesia degli anni ’80 “suicida a sé stessa”.

La vicenda è ambientata nell’Italia fascista e troverà il suo sviluppo a Capri quando Lucio, un giovane intellettuale, anti-fascista solo perché odia il conformismo e la massa, amante di Kleist e di Nietzsche, spera di trovare lì l’ispirazione per scrivere un libro portando con sé nell'isola una condizione di profonda melanconia: il compito dei suoi pensieri sembra difatti essere quello di "stabilizzare la disperazione", cioè di porsi nella condizione di convivere con la propria disperazione esistenziale senza cadere nel buio richiamo del suicidio.

Nella stessa pensione dove pernotta, Lucio avrà modo di conoscere Beate, una malinconica e riservata attrice tedesca che sembra volergli comunicare con un gioco di sguardi, turbamenti, silenzi allusivi, ammiccamenti appena accennati, quelle stesse inquietudini che pervadono l'animo del giovane. Quando a poco a poco Lucio si innamorerà di lei e del mistero che racchiude, Beate lascerà Capri senza che nulla sia avvenuto e al suo posto arriverà la sua gemella, Trude, identica a Beate ma più spregiudicata e accattivante. La vicenda sembra complicarsi perché Lucio comincerà a chiedersi se Trude e Beate siano veramente gemelle o se siano la stessa persona, investigando in un gioco complesso di conturbante sessualità e perfetta mistificazione, che Beate sembra proporgli fino al tragico epilogo del suicidio della ragazza.

Il titolo è dedicato all’anno in cui il discorso di Hitler (30 Giugno del, appunto, 1934) diede il via ad una notte di sangue, “la notte dei lunghi coltelli”. Moravia difatti non rinuncia a calare i propri personaggi negli eventi politici del tempo, nonostante il vero tema sia l’idea che il protagonista chiarisce, a sé stesso e al lettore, di rendere culturale la disperazione, di integrarla nella vita. Di fronte al furore suicida di Beate, Lucio pensa che sia necessario fare della disperazione una condizione normale, vissuta stoicamente, di sentirla come una legge di vita perché la ritiene l'unica maniera possibile per vivere.
Lucio ha ventisette anni nel romanzo e colpisce il fatto che proprio nel 1934 Moravia aveva la stessa età del protagonista, come se lo scrittore volesse dichiarare la paternità di tutta quella schiera di intellettuali di cui si sente parte, utilizzando una narrazione in prima persona che rivela unanimità di idee e sentimenti che accomunano scrittore e protagonista. Inoltre la storia e la società fanno da cornice all’analisi psicologica anche se lo scrittore non li pone sullo stesso piano bensì li amalgama. Ma il vero tema di 1934 consiste nel far gravitare intorno agli interrogativi sulla disperazione e sul suicidio tutto il romanzo, e il posto d’onore viene lasciato a quella storia costruita sugli sguardi, sulle parole non dette, sui pensieri carpiti, sugli indizi che Beate lascia trovare a Lucio.

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giovedì 10 dicembre 2009

Filosofia e pratica medica

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Gli sviluppi della tecnologia e della scienza medica, ci pongono di fronte a delle nuove questioni etiche (tra cui, addirittura, anche un’eventuale ridefinizione del concetto di vita), con le quali siamo tutti chiamati ad avere a che fare. Fra i pensatori che in età contemporanea si sono dedicati alla riflessione su tali questioni, risultano essere particolarmente significativi i contributi di Hans Jonas, Karl Jaspers e Hans-Georg Gadamer.
Jonas, in opere come Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Il principio responsabilità, La filosofia alle soglie del Duemila, Organismo e libertà, Scienza come esperienza personale, Tecnica, medicina ed etica, pone la libertà come il fondamentale modus essendi di ogni forma di vita, da questa semplice considerazione derivano delle enormi responsabilità per l’uomo contemporaneo. Quest’ultimo infatti, a causa delle enormi conseguenze che può produrre nel tempo e nello spazio, tramite le nuove tecnologie, che lo rendono, nelle parole dello stesso Jonas, un “Prometeo scatenato”, diviene responsabile non solo della propria libertà ma anche di quella degli altri viventi. La definizione di nuovi diritti e doveri nei confronti di tutti i viventi e dell’ambiente che ci ospita, diviene allora prioritaria per tale Prometeo scatenato: ad una nuova ontologia deve corrispondere una nuova morale.
Jaspers, in testi quali Psicopatologia generale e Il medico nell’era della tecnica, fa notare come la pratica medica sia sostanzialmente ambigua: essa è infatti al contempo una scienza (indubbiamente) ed un’”arte” che ha un suo scopo, la guarigione come ripristino della naturalità, un suo oggetto, l’organismo vivente, un suo luogo, l’interno dell’organismo, ed una sua specifica prospettiva, quella di affrontare ogni caso, ergo ogni organismo, come unico, mettendo in campo una mescolanza di sapere, esperienza e intuizione. Il medico risulta così essere un “creatore” di salute, con tutte le responsabilità che ne derivano, accresciute, oggi, dalle nuove potenzialità di una medicina tecnologicamente supportata.
In cosa consistano queste, dilatate, responsabilità, viene da Gadamer focalizzato in Dove si nasconde la salute. L’etica della responsabilità rifiuta gli estremi dell’accettazione rassegnata dello status quo e dell’elaborazione presuntuosa di un futuro perfetto; essa è sì critica costruttiva allo status quo e tensione verso il futuro, ma verso un futuro non precostituito, aperto a molteplici possibilità, molteplici contenuti, che siano però sempre il frutto di un’unione consapevole fra necessità e libertà, finalizzata al raggiungimento di una “salute”, che altro non è che una condizione di equilibrio, armonia, senso della misura, nel rapporto con se stessi, gli altri ed il mondo in cui siamo inseriti.

("Periodico Italiano webmagazine", 25/11/2009)

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mercoledì 9 dicembre 2009

Pittura e letteratura nell'archeologia di Michel Foucault

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault, Quodlibet, Macerata 2008

(Dalla quarta di copertina)

Il volume indaga la prospettiva archeologica che orienta la ricerca foucaultiana degli anni ‘60. Si tratta di un tema che viene affrontato privilegiando l’analisi di tutta una serie di testi apparentemente marginali rispetto alle grandi questioni teoriche poste dalla ricostruzione storica delle pratiche del sapere. L’autrice, infatti, prende in considerazione quella serie di scritti sulla letteratura e la pittura che, avendo un carattere saggistico e d’occasione, superficialmente non sembrano avere una ricaduta sul lavoro archeologico. Però, se si leggono tali intereventi in riferimento al momento in cui Foucault nei sui principali scritti cita l’esemplarità dell’opera d’arte, allora emerge un quadro ben preciso: letteratura e pittura sembrano disegnare l’una la curva di movimento, l’altra il diagramma di stato di un’epoca storica archeologicamente determinata. Si profila, così, la possibilità di intendere la pittura e la letteratura come due pratiche che, ognuna nel suo specifico ruolo e attraverso la loro alternanza, il loro ritmo, ci restituiscono da un altro punto di vista – un’angolazione privilegiata – quel tipo di storia filosofica che Foucault ricostruisce adottando uno sguardo archeologico e alla quale dà il nome di “genealogia”.

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domenica 6 dicembre 2009

I “Miserabili” di Paolini

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Senza dei forti contrappesi culturali Economia e Politica non sono in grado di pianificare il nostro futuro

Marco Paolini, Note d’autore, in Jolefilm.it

Racconto del Vajont, Il Milione, Il Sergente, La macchina del capo, sono alcuni dei lavori di Marco Paolini passati sul piccolo schermo, sul quale l’attore, autore e regista bellunese ha recentemente inaugurato una nuova collaborazione con La7, il cui primo frutto è stato Miserabili. Io e Margaret Thatcher.
In questo testo teatrale, scritto insieme ad Andrea Bajani e costruito come un racconto in forma di ballata (con brani dei “Mercanti di Liquore”), Paolini descrive l’invadenza, quasi impalpabile nel suo insinuarsi ma palese nelle sue conseguenze, dell’economia sulle e nelle vite degli italiani a partire dagli anni Ottanta, e che ha fatto sì che oggi l’atto di spendere non sia più proposto come una possibilità, ma come un dovere. Non a caso, il luogo scelto per la rappresentazione televisiva è il molo-container di Taranto, adiacente all’Ilva. Questo luogo è infatti considerabile come una sorta di “metafora concreta” sia dei processi commerciali e consumistici tipici della società contemporanea: il muro di containers, abbattibile solo con la consumazione della merce che vi è dentro, ma subito rigenerantesi, e sostituente l’importanza e il significato del Muro di Berlino, poiché se prima era la politica a disporre della e determinare la vita degli uomini, ora sono i processi economici sovranazionali; sia dell’impatto ambientale che gli stessi processi economici determinano: emblematico l’impianto dell’Ilva.
Mutuando una tradizione tipica del rugby (del quale Paolini è un appassionato), la serata dei Miserabili si chiude con un “terzo tempo” nel quale gli spettatori sono invitati ad analizzare e commentare i temi rappresentati.

("Periodico Italiano webmagazine", 03/12/2009)

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giovedì 3 dicembre 2009

Ce ne ricorderemo di lui?

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

A vent’anni dalla sua scomparsa è ancora vivo il ricordo di uno degli intellettuali più statuari che il Novecento abbia potuto partorire e cullare nelle sue atrocità e misfatti.
Il ricordo di Leonardo Sciascia torna vivo nella mente dei lettori italiani quando, per ricordare lo scrittore di Racalmuto, il 30 ottobre 2008 viene lanciato ufficialmente a Firenze un manifesto dal titolo “Ce ne ricorderemo di questo maestro”, che è stato firmato da decine di uomini di cultura in varie parti del mondo: il Nobel 2006 per la Letteratura, Orhan Pamuk, il direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, Salvatore Settis, scrittori come Andrea Camilleri, Dacia Maraini, Mario Andrea Rigoni e Vincenzo Consolo, filosofi come Fernando Savater e Massimo Piattelli-Palmarini, uomini politici come Marco Pannella ed Emanuele Macaluso, l'editore Elvira Sellerio, pittori come Piero Guccione e Bruno Caruso e molti altri.
Celebri sono i film tratti dai suoi romanzi come Il giorno della civetta, diretto dal regista Damiano Damiani nel 1968, con il quale lo scrittore indica nel giallo il genere di riferimento delle sue opere, oppure A ciascuno il suo diretto da Elio Petri nel 1966, tratto dall’omonimo romanzo.
Potremmo parlare di tutta la copiosa e fortunata produzione di questo grande scrittore ma è doveroso ricordare anche il suo impegno nella lotta al terrorismo, alla mafia, che coraggiosamente Sciascia denunciò nei suoi romanzi e nella sua prassi politica, assumendo l’incarico di componente della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro ( che darà i natali al fortunato libro, L’affaire Moro) e sul terrorismo in Italia.
Torna sempre più attuale la sua ironica e pungente denuncia delle connivenze tra Stato e mafia, che nelle sue parole scorre fluida con allusive osservazioni e ammiccamenti che incredibilmente sembrano alludere all’Italia di oggi.
La sua figura di uomo di lettere e intellettuale impegnato sembra contraddire quelle ombrose figure di intellettuali moraviani sempre più dediti ad una acerba speculazione, mentre la sua voce è una voce critica garante delle sua coerenza morale, che lo portò persino a dimettersi nel 1977 dalla carica di consigliere del P.C.I. dopo scontri molto duri con la dirigenza del partito, sempre più ancorata ad una retorica populista e ormai svuotata di quel generoso movimento rivoluzionario che ben lo esaltò ad alfiere di giustizia. E in quello stesso anno la critica acuta di Sciascia ritorna, pubblicando Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia (dove è chiaro il riferimento al Candido di Voltaire) in cui rivela, sempre in un sottile gioco di allusioni e immagini, l’amarezza della sua esperienza politica.
Ma ciò che rimane veramente impresso è il lapidario commento lasciato, alla fine della sua vita, davanti il cimitero di Racalmuto: «Ce ne ricorderemo di questo pianeta» desunto da un manoscritto conservato dalla famiglia, in cui Sciascia scrive: «Ho deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di Villiers de l'Isle-Adam: "Ce ne ricorderemo di questo pianeta". E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano».
Potremmo forse dire, come sintetica conclusione, che Sciascia non aveva intuito una cosa: se la nostra memoria, spezzata dalla morte, probabilmente ci impedirà di ricordarci di questa Terra proprio come recita il suo epitaffio, sicuramente non abbiamo mancato all’appuntamento di ricordarci di lui, un grande modello di intellettuale da porre come esempio nostalgico, uomo che fece del dubbio il lume della sua speculazione critica, icona di uno scrittore profondamente radicato nella sua amatissima terra, la Sicilia, luogo affascinante e contraddittorio che lo portò ad assurgerla come metafora della vita mentre lui, Sciascia, continuava ad indagare la realtà con gli occhi di un uomo vissuto all’insegna della propria coerenza morale, virtù che dopo vent’anni dovrebbe essere gridata a calda voce a chi tale virtù la dichiara a parole solo durante le campagne elettorali per il proprio tornaconto.
Speriamo allora di poterci ricordare di lui, di leggerlo, di interiorizzarlo, di capire il messaggio profondo che traspare dalle sue pagine, perché lasciare Leonardo Sciascia negli scaffali del dimenticatoio non sarebbe uno scandalo in senso stretto, ma solo la conferma di una società italiana che attende da tempo una rigenerazione morale, troppo a lungo rimandata.

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lunedì 30 novembre 2009

L’altra estremità dei sogni

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

corre la notte

ubriaca
con il
vino bianco nel
bicchiere
trasparente e
giallo. ecco,
che mi ritrovo
per le strade della
mia città, una notte
umida
col cielo
nero
di tristi nuvole
memorie calpestate
marciapiedi sgangherati
in mezzo a pochi altri
vagabondi
fasciati nelle loro
giacche con
gli occhi gin & tonica di
Lele pensieroso
per sua moglie
al nono mese a casa
da sola
il pollo arrosto nel
cartoccio con
le patatine
fritte e la pelle
rosolata.
la stranezza di
questa notte
con la tromba di Charley
Parker, le cartine
che rollano
il vino che gira,
le parole che
muoiono spezzate
sul crinale
della nostra
solitudine.
c’è una ragazza
con lunghe ciglia
tristi
carnagione bianca
capelli
neri occhi neri
è la mia
Maria Maddalena
il corpo sacrificale
di questa notte amica
stretta tra
le braccia
dentro il
suo mistero. in
questa città
in questo locale
e poi un
altro e ancora un
altro per poi, alla fine,
ritornare indietro e
scoprire
che Lele non c’è più, che se
n’è andato
lasciando i suoi
occhi gin & tonica
sul tavolino
d’alluminio insieme a un
pacchetto di sigarette
vuoto e
accartocciato
con la scritta
incomprensibile
e nera come
questa notte sotto
il cielo ruvido
di nuvole. la notte rulla
il fumo e
macina l’eroina con
i ragazzi ubriachi
che urlano sul ciglio
della strada. amo
questa notte con
Miro che mi racconta
dei due
anni che non ci siamo
incontrati,
non ci siamo parlati. no,
non ho rispettato
questa santa amicizia.
la ragazza che è
con me adesso ha le
guance rosse ed
è vera
carne e ossa
con occhi tanto neri
da commuovermi.
mi accarezza le mani con
dita calde e sensuali.
scivola questa
notte senza gelo
con le sciarpe annodate
i guanti che ci fissano
da lontano. in
questa notte i lampioni
per le strade
sono vuoti fantasmi
di un antico Palazzo
imperiale vicino
alla Cattedrale. io
guardo quegl’occhi
tagliati e neri
che reggono tutto
il peso dell’Universo.
mi cade la sigaretta mentre
Miro mi
abbraccia e sorride,
ride ubriaco di birra,
canta la nostra amicizia
col cappello a tre
quarti, la barba incolta,
il loden blu
notte. comincia a piovere
ho ancora un bel po’
di strada da fare col
mio carico d’alcool nelle
vene e non voglio nemmeno
ripararmi sotto i
cornicioni
mi bastano il calore dell’
abbraccio di Miro
e le labbra umide di
questa ragazza siciliana a
lavare tutto il veleno
nel mio cuore.
tiro avanti per la strada
sotto la pioggia scrosciante
in questo lunedì da
incorniciare alla
ricerca
dell’altra estremità
dei sogni. questa
notte
pallida
lenta
maestosa
è venuta a
salvarmi
mentre la porta di
casa s’apre
pigramente e
c’infiliamo
sotto le lenzuola
le coperte e il
piumone
rannicchiati in
un sonno senza fine
sotto questa pioggia
battente.

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venerdì 27 novembre 2009

Giornalismo sul Web: ipertestualità e multimedialità

di Grazia Calanna (graziacalanna@lestroverso.it)

“Il quotidiano online è quello che raccoglie in tempo reale, contestualmente alla pubblicazione delle sue notizie, le impressioni e le opinioni dei lettori. Un processo del farsi dell’informazione che cancella totalmente qualsiasi autorità precostituita, che sottopone a verifica costante qualsiasi affermazione, che modifica i dati del gioco mentre questo è in corso e che dà a chi legge, diventato consumatore cliente, la possibilità di accedere ad altre e altrettanto importanti fonti di informazione, tutte raccolte sotto la testata del giornale. Un giornale prodotto direttamente in forma elettronica"(1). Numerose ricerche sulle caratteristiche del pubblico dei giornali online dimostrano che Internet torna a valorizzare il testo, che si presenta come una malta per tenere insieme e organizzare l’ipertestualità e la multimedialità. Per alcuni versi, si può affermare che Internet ha riportato il giornalismo indietro, fino alle origini, e la prova giunge dalla riapertura del dibattito circa il significato della professione sotto tutti gli aspetti (tecnici, etici, contrattuali, editoriali). Si è spesso pronosticato che la diffusione dei media telematici avrebbe portato a un progressivo declino della scrittura. La stato attuale delle cose contraddice le pessimistiche previsioni. Di fatto, i media telematici hanno accresciuto le occasioni di produzione e consumo dei testi scritti innescando un processo di rinnovamento della scrittura che tende ad assumere forme nuove, tanto dal punto di vista linguistico che strutturale e informativo. La scrittura per il web si caratterizza per una certa tendenza alla commistione di tratti tipici delle modalità comunicativa, orale e scritta. La stessa si mantiene a un livello di formalità media e manifesta caratteristiche più prossime a quelle tipiche dei testi scritti che non di quelli orali. Nei testi giornalistici, esclusi alcuni articoli di costume, si evita il ricorso a forme linguistiche che puntino direttamente all’autore. L’uso di verbi alla prima persona singolare e delle relative forme pronominali è assente. Diverso è il caso dei testi di argomento tecnico, in cui la relazione tra autore e lettore può divenire linguisticamente trasparente. In questo caso, la retorica della partecipazione prevede che si impieghi sia la prima persona singolare in contrapposizione con la seconda plurale (io che scrivo – voi che leggete), sia un noi che potremmo chiamare “sinergico”(2). Va precisato, comunque, che la lingua dei quotidiani online deve molto a quella dei quotidiani cartacei ai quali, tranne rare eccezioni, sono strettamente collegati. Immediatezza, aggiornamento continuo delle informazioni, ipertestualità, chiarezza e brevità. Sono queste alcune delle caratteristiche strutturali e linguistiche specifiche del mezzo. Certo è che la necessità di scrivere e aggiornare rapidamente i pezzi determina la presenza di numerosi refusi e incoerenze linguistico-testuali che, a volte, tendono ad abbassare la percentuale di leggibilità.
Dal punto di vista dell’organizzazione della pagina, lo spazio a disposizione per presentare la notizia, contrariamente alle convinzioni comuni sulle dimensioni sconfinate del web, è molto limitato, con l’esigenza di asciugare al massimo la scrittura, finendo col proporre un’esposizione del fatto sostanzialmente coincidente con il modello delle 5 W. Soprattutto nel giornalismo italiano, tradizionalmente portato a preferire uno stile di scrittura paraletterario, il ritorno alla formula reporting rappresenta un rilevante cambio di prospettiva. Il giornalismo online preferisce notizie ancorate all’avvenimento e alla scrittura oggettiva. Il web ha fatto emergere un modello di unità di base del giornalismo, la notizia online, costruita intorno a quattro concetti principali: capacità di sintesi, precisione del fatto, chiarezza espositiva e suggestione dell’approfondimento(3).
Internet impone la brevità, senza preconcetti. Non è vero che nel web la gente cerca solo pillole d’informazione. Anzi, se c’è la qualità anche la quantità è apprezzata. Ai livelli profondi dell’ipertesto occorre un gran lavoro di sintesi e di ricerca dell’espressione più semplice e forte. È il nuovo modo di leggere che condiziona il nuovo modo di scrivere(4). Ciascuno dei generi della scrittura online (posta elettronica, sito aziendale, web-zine o web magazine, e-zine o newsletter tematica, portale, weblog) richiede competenze specifiche. Tutti, però, ne richiedono due fondamentali: costruire ipertesti e scrivere in termini visivi. Il sociologo Theodor Holm Nelson descrive l’ipertesto come una “Combinazione di un testo in linguaggio naturale con la capacità del computer di seguire interattivamente, visualizzandole in modo dinamico, le diverse ramificazioni di un testo non lineare che non può essere convenientemente stampato su di una pagina convenzionale”(5). Non è un caso che si dica costruire, e non scrivere ipertesti. Costruire, perché un testo per il web richiede una progettazione ancora più accurata di quella di un testo destinato alla stampa. Sul web il testo acquista una nuova dimensione: si espande in profondità, anziché in lunghezza. L’unità di misura non è più la pagina. I “blocchi di testo” diventano “blocchi di lettura” che, attraverso i link di collegamento, permettono al lettore di ricevere una grande quantità d’informazioni. Passare dalla scrittura lineare alla scrittura profonda e sfruttare tutte le potenzialità dell’ipertesto, non significa solo disarticolare un documento in tanti pezzi e poi riunirli, di schermata in schermata. Significa, inoltre, chiedersi chi è il lettore, cosa vuole sapere e in quale sequenza, quale priorità attribuisce alle informazioni, con quale ritmo vuole soddisfare la sua sete di conoscenza. Prima di scrivere, dunque, è necessario organizzare le informazioni su diversi livelli e collegarle per mezzo di link. Questo lavoro di progettazione e di organizzazione è il compito fondamentale dello scrittore online. In questa rivoluzione dello spazio, saper condurre il lettore nei labirinti ipertestuali, senza fargli perdere l’orientamento, significa saper coniugare libertà e rigore, irregolarità e regolarità, facendo ricorso a diverse strategie. Tra queste particolarmente importante è quella della piramide rovesciata. E’ necessario cominciare dalla conclusione, dalla notizia vera e propria, per scendere, via via, in maggiori dettagli proprio come avviene nelle prime pagine dei giornali: titolo, foto, occhiello, sommario, didascalia, inizio articolo, rimando alla pagina interna. Altrettanto importane è scrivere in termini visivi. Ancora più che sulla carta, nel web il formato è parte integrante del processo di scrittura. Testi, grafica e impaginazione vengono concepiti insieme. L’unione tra parola e immagine è una sfida intrigante per lo scrittore che, abituato a pensare in bianco e nero, deve imparare a lavorare in termini visivi: scegliere le parole pensando allo spazio in cui abiteranno, ai colori, ai caratteri, ai fondi che andranno a scolpire, al filo di memoria che riusciranno a tenere dopo tre o quattro click. La grafica studiata per il web, libera e senza canoni prestabiliti, ha sconvolto le convenzioni della grafica tradizionale, mescolando gli stili, le idee, e premiando aspetti quali la semplicità e la chiarezza, anziché l’eleganza e la distinzione(6).
Internet ha prodotto quattro mutamenti fondamentali del giornalismo. Dall’esterno, ha fatto pressione sulle redazioni rendendo disponibili informazioni dettagliate su moltissimi soggetti, persino documenti considerati non pubblicabili. Ha reso possibile una gestione degli approfondimenti facilitata dallo stoccaggio di grandi quantità di materiali informativi. Ha trasformato il peso e il numero delle notizie in una massa critica, che modifica la percezione degli avvenimenti facendoli intendere non più come singole disfunzionalità ma come problemi cronici di sistema. Il tutto, mettendo in campo reti di comunicazione che hanno aumentato le possibilità di interagire, dando facilmente voce a chi ha qualcosa da dire su specifici argomenti. Il problema chiave per un giornalista web è quello della selezione. Chi naviga su internet sosta, mediamente, su una singola pagina non più di venti secondi. Per il giornalismo online questo fenomeno si riflette sulla capacità di valutare la notizia dal punto di vista della rilevanza del fatto, dell’incisività espressiva, della sinteticità dei contenuti. Nella maggioranza delle testate, il lavoro redazionale è svolto, quasi esclusivamente, attraverso l’assemblaggio di flash d’agenzia, materiali d’archivio e rinvii alle altre risorse della rete(7). Internet rappresenta uno strumento indispensabile per il lavoro giornalistico non solo per l’offerta informativa che mette a disposizione ma, soprattutto, per la velocità con cui la fornisce. Riguardo alle fonti, anche per il web, vale la distinzione classica tra primarie e secondarie. Tutte le istituzioni hanno un proprio sito. Quelli forniti sono dati ufficiali, la cui credibilità è strettamente legata alla struttura di riferimento. La disponibilità di queste informazioni consente un lavoro di maggiore precisione e completezza. Una documentazione enorme, un grande archivio, cui il giornalista può attingere alla ricerca di elementi importanti, spesso, nascosti dietro le parole. Esistono poi i siti da considerare fonti secondarie. Privi di autorevolezza ufficiale ma portatori di notizie, indiscrezioni, tutti da vagliare e il cui utilizzo coinvolge direttamente la responsabilità di chi ne fa uso. Un esempio tipico è quello del blog o diario digitale che registra eventi in ordine cronologico. Il fenomeno, lo ricordiamo, nasce negli Stati Uniti all’inizio del 1999. In Italia si manifesta nel 2001 con la nascita di blog.it. Un anno dopo, nel mondo, si contavano quasi un milione di blogger. Dopo l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York e con la guerra in Iraq del 2003, i blog hanno conosciuto uno sviluppo continuo perché sono diventati i luoghi in cui leggere testimonianze dirette e storie inedite. Un personal jornalism che ha visto protagonisti attivi gli stessi militari del fronte, raccontanti in diretta quanto accadeva attorno a loro(8).
Dopo aver parlato delle fonti, non si può concludere senza ricordare che un altro “problema” del giornalismo online è quello della credibilità. Steve Outing, direttore di “Conten Spotlight”, sito specializzato sulla scrittura di prodotti editoriali per il web, propone alcune regole per migliorare l’impatto sull’opinione del lettore(9). Sarebbero sette le regole di trasparenza per l’editoria in rete: il prestigio della testata, che fa leva sul rapporto fra edizione cartacea e edizione online; la presentazione del giornalista che firma l’articolo, con link diretto alla sua biografia; la proprietà del sito, da presentare nella pagina “Chi Siamo”, direttamente raggiungibile da tutte le pagine del sito; la pubblicazione della linea politica del giornale; la possibilità di trovare e scaricare il codice etico; la professionalità delle risorse impiegate; la disponibilità a pubblicare rettifiche, sfruttando la tempestività di intervento consentita da Internet.

1) Alberto Berretti – Vittorio Zambardino, Internet. Avviso ai naviganti, Donzelli, Roma 1995.
2) Ilaria Bonomi – Andrea Masini – Silvia Morgana, La Lingua Italina e i Mass Media, Carocci, Roma 2003.
3) Alberto Papuzzi, Professione Giornalista, Donzelli, Roma 2003.
4) Alessandro Lucchini, Content Management, Apogeo, Milano 2002.
5) Domenico Fiormonte – Ferdinanda Cremascoli, Manuale di scrittura, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
6) Alessandro Lucchini, Manuale di Relazioni pubbliche, IULM – The McGraw-Hill Companies, Milano 2001.
7) Alberto Papuzzi, Professione Giornalista, Donzelli, Roma 2003.
8) Giuseppe Farinelli – Ermanno Paccagnini – Giovanni Santambrogio – Angela Ida Villa, Storia del giornalismo italiano. Dalle origini ad oggi, UTET, Torino 2004.
9) Alberto Papuzzi, Professione Giornalista, Ed. Donzelli, Roma 2003.


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mercoledì 25 novembre 2009

“Il Bello musicale” in Hanslick

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Colui che ha talento musicale è spinto a creare un pezzo da un canto interiore e non da un sentire interiore puro e semplice.
E. Hanslick, Il Bello musicale

Nel 1854 viene pubblicato per la prima volta Il Bello musicale di Eduard Hanslick, il testo verrà poi continuamente ampliato dall’autore sino alla sedicesima edizione. Quest’opera contiene un elemento fondamentale di tutta la riflessione musicologica di Hanslick: l’idea che la musica, nonostante possa suscitare dei sentimenti, non li possa esibire, non li possa descrivere.
La musica, secondo Hanslick, utilizza degli strumenti specifici (l’eufonia, il ritmo, le note, la melodia, l’armonia, i timbri) per esprimere delle “idee musicali”, delle “forme sonore in movimento” che risiedono nella fantasia del compositore e che, lungi dall’essere una descrizione di qualcosa (neanche, come spesso si crede, di sentimenti), rappresentano una metafora che allude a qualcosa che non è di questo mondo e che, pertanto, non è né dicibile né razionalmente comprendibile, ma intuibile grazie all’allusione metaforica della musica.
In base a questa impostazione l’ascoltatore deve allora porsi in una condizione di “ricezione estetica” e non “patologica”. Quest’ultima la si ha quando nella musica si cercano dei contenuti concettuali che dovrebbero produrre degli “effetti morali”, quando, perciò, si considera la musica solo come uno strumento per tendere ad uno scopo esterno alla musica stessa; la ricezione estetica, invece, la si ha quando, a partire dalla consapevolezza che la musica non contiene concetti né esibisce sentimenti, ma è allusione, a partire dalla fantasia dell’artista, ad una dimensione altra, che si può solamente intuire (non essendo traducibile nei linguaggi del logos), la si ascolta unicamente per se stessa: «Un pezzo è udito e goduto veramente solo da colui che ne riporta non solo un’impressione generale sul sentimento, ma anche un’intuizione indimenticabile determinata proprio da quel dato pezzo» (E. Hanslick, Il Bello musicale, Aesthetica, Palermo 2001, p. 99).

("Periodico Italiano webmagazine", 10/11/2009)


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lunedì 23 novembre 2009

Musica e Filosofia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Sono molti i pensatori contemporanei che hanno riflettuto sul rapporto fra arte e filosofia, solo per menzionare alcuni fondamentali passaggi, da Giovanni Gentile (La filosofia dell’arte) a Martin Heidegger (L’origine dell’opera d’arte), dall’idea di “chiasma” (unione di bellezza e verità) in Walter Benjamin alle riflessioni di Herbert Marcuse sul valore “sociale” dell’arte. Pur nelle ovvie differenze, in queste riflessioni è presente una sorta di comune leit motiv: quello di porre arte e filosofia non in un rapporto gerarchico fra di loro, ma in una relazione paritaria, nella quale risultano essere sfumati i rispettivi confini.
Non c’è quindi da stupirsi se alcuni pensatori, convenzionalmente passati alla storia come filosofi, si siano dedicati alla composizione musicale. Solo per fare alcuni esempi: Jean-Jacques Rousseau (che con il “melagogo” va alla ricerca di un nuovo genere musicale che sintetizzi strumenti e voce), Friedrich Nietzsche (che nei suoi “Lieder” vuole mostrare come sia la musica a scegliere la parola, che viene sempre travolta dalla musica stessa), Theodor W. Adorno (in cerca di un nuovo equilibrio “dialettico” fra compositore/musicista e musica). Ma, al di là delle rispettive specificità, è fondamentale cogliere come il trait d’union di queste riflessioni e di queste esperienze compositive risieda nel ritenere l’autentica filosofia, l’arte, in generale, e la musica, in particolare, come delle manifestazioni di avvicinamento a ciò che, nella sua essenza, rimarrà sempre indicibile, inesprimibile, ineffabile, palesando, quindi, i limiti della conoscenza umana, che solo attraverso istantanee intuizioni può percepire l’Assoluto.

("Periodico Italiano webmagazine", 06/11/2009)

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martedì 17 novembre 2009

Alterità

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il tentativo di definire le nuove responsabilità dell’uomo moderno, testimonia l’inquietudine e lo spaesamento di un epoca (la nostra) che fa seguito al decentramento del cogito, alla “morte di Dio” ed al politeismo dei valori. Ma proprio la tematizzazione di tali nuove responsabilità rende chiaro come esse non vadano assunte da un soggetto auto-referenziale (che si confronta solo con se stesso), bensì in relazione alla categoria di alterità, sia oggettiva (la natura e le cose) che soggettiva (il prossimo). Così, le grandi questioni filosofiche si allontanano da quella teoria della conoscenza, centrale nella modernità, imperniata sull’egemonia dell’ego cogito, e si riconfigurano attorno alla questione della relazione all’alterità; è quindi nell’ambito di tale relazione che devono essere rintracciate le nuove (co-)responsabilità dell’uomo. All’interno di tale orizzonte etico, il soggetto non appare più come un io auto-fondantesi, bensì come un già costituito ed inserito in un mondo di rapporti già istituiti, non creati da lui, ma ai quali è chiamato a corrispondere, anche con il silenzio dell’ascolto; è solo nell’ambito di tale paradigma che il soggetto può tendere alla felicità, individuale e collettiva. Si passa così dalla relazione teoretica, tipica della modernità occidentale, che con il medium della conoscenza(1) lega l’ego all’alter ego, alla relazione etica che tramite il medium della cura unisce il agli altri da sé. Per questo, vi sono pensatori (in particolar modo Emmanuel Lévinas, Paul Ricœur e Jacques Derrida) che, criticando ma non rifiutando la tradizione di pensiero di cui l’Occidente è erede, focalizzano la loro attenzione non tanto sullo statuto delle responsabilità dell’uomo moderno (come è, ad esempio, in Hans Jonas), quanto sul modus grazie al quale gli uomini si relazionano, costruendo (quasi come un effetto collaterale) in e per tali relazioni, quelle responsabilità.
L’etica appare, così, non come un insieme di regole procedurali, ma come una modalità di decifrazione dei rapporti fra gli uomini, approdante al rifiuto di qualsiasi forma di lotta per il riconoscimento e di logiche utilitaristiche, che troppo spesso risolvono i nodi politico-morali con la schematica concessione di vantaggi per i meno avvantaggiati, ed esortante alla loro sostituzione con un sentimento di rispetto disinteressato per gli altri, riassunto da quel “comandamento dell’amore” che

è il comandamento che precede ogni Legge è la parola che l’amante rivolge all’amata: ‘Amami’ […] contiene le condizioni della sua propria obbedienza grazie alla tenerezza dell’esortazione ‘Amami’(2)

Per tale via appaiono, inoltre, superabili i termini del conflitto etico-politico contemporaneo fra comunitaristi e liberalisti, fra differenza dei valori e universalismo delle norme, che rischia di rimanere sterile in quanto

l’universalismo astratto ed estrinseco non è capace di valorizzare adeguatamente le diversità; il contestualismo si autoconfina invece in un particolarismo che non sa andare oltre se stesso, in quanto le diversità, benché apprezzate, non riescono a interloquire fra loro(3)

Sono queste le problematiche che con Lévinas possono essere superate, sostituendo la soluzione “egologica” husserliana al problema dell’intersoggettività, con la questione dell’alterità(4). Lévinas infatti imputa ad Edmund Husserl l’avere affrontato il problema dell’intersoggettività attraverso la categoria dell’ego cogito che, inevitabilmente, può cogliere l’altro solo come alter ego, ma così facendo, l’ego rimane il momento originario e costituente del mondo e degli altri, rispetto al quale l’alter appare inizialmente con i caratteri dell’estraneità(5). Contestando il “narcisismo del cogito” ed il mito dell’interiorità della coscienza, Lévinas si concentra sull’esteriorità dell’assolutamente altro, emergente dal volto, volendo però liberare la relazione con il volto dell’altro dalla dialettica del riconoscimento, tipica della modernità occidentale(6). Per questo l’altro non è, per Lévinas, descrivibile come alter (io estraneo), ma come autrui, pronome indefinito, riferibile solo alla persona, espressione quindi indicante la presenza di qualcun altro, ma senza la pretesa di identificarlo inserendolo nelle categorie abituali del nostro pensiero:

l’espressione francese autrui, pronome indefinito invariabile, che rifiuta in ogni caso l’articolo, sia quello determinativo che quello indeterminativo, indica nel francese corrente l’altro uomo, l’altro uomo in quanto tale, in quanto differente da me, in definitiva, il prossimo, come oggetto di considerazione giuridica o morale(7)
Il pronome autrui permette a Lévinas di descrivere una relazione con il prossimo alternativa a quella

relazione con l’essere, che si esplica come ontologia, consiste(nte) nel neutralizzare l’essere per comprenderlo o per impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quanto tale, ma la riduzione dell’Altro al Medesimo […] l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il Medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia(8)

Riduzione che rimane una costante anche dell’ontologia heideggeriana, che subordina la relazione con gli altri, alla relazione con l’essere:

l’essere prima dell’ente, l’ontologia prima della metafisica, cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. E’ un movimento nel Medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’Altro(9)

Ora, il fatto che Lévinas critichi la forma di fondamento autocosciente di ogni sapere e potere, assunta nella modernità dalla soggettività umana, non significa che egli rifiuti la questione della soggettività, ma che voglia declinarla in una forma non egocentrata, bensì esposta all’evento dell’altro. Una rilevante conseguenza di tale “riorientamento etico” consiste in una diversa concezione della responsabilità che, da libero atto di volontà, diviene risposta all’appello proveniente da autrui. In questi termini, essendo la responsabilità una risposta data all’Altro, essa si colloca immediatamente in un contesto intersoggettivo, caratterizzabile come “paradigma della cura” (alternativo al “paradigma dei diritti”), nel quale l’Altro, anziché ridursi al Medesimo, mantiene la propria differenza, e nel quale la “morale del debito” viene abbandonata a favore dell’“etica del dono”, tipica delle cosiddette relazioni “deboli” quali l’amore, l’amicizia, la fraternità, l’accoglienza e l’ospitalità, da Lévinas esemplificate in figure quali l’orfano, la vedova, l’ostaggio («Altri, che mi domina nella sua trascendenza è anche lo straniero, la vedova e l’orfano verso cui ho degli obblighi»(10)). Siamo qui di fronte ad una innovativa prospettiva etica, in quanto

Il patto è un accordo di interessi […] Soltanto nel dono c’è una anticipazione assoluta. Se l’etica si costruisce solo sul patto, in fondo è motivata dall’interesse. Lo scatto più grande è essere disponibili all’altro. E questo è il dono. E c’è una parola che lo contrassegna, che si chiama “amore”. Il culmine dell’etica è la capacità di amare(11)

Per realizzare ciò, è però necessario porre al centro della riflessione etica non la libertà, ma la giustizia, intesa come ineludibile condizione di ogni relazione all’alterità, infatti


La relazione di alterità è la dimensione fondamentale dell’etica […] E allora la domanda etica diventa: qual è la giusta relazione con l’altro? […] (ed a sua volta) la giustizia, come la non prevaricazione, è il dare ad ognuno come dicevano i latini – quello che è suo, in una equa spartizione dei beni e delle risorse […] Una delle ragioni fondamentali per cui si scatena nel mondo la violenza è l’ingiustizia(12)

Tuttavia, l’esigenza di riorientare l’etica in direzione della giustizia, può essere compresa solo partendo da una nuova concezione dell’io. La questione dell’alterità, infatti, rende evidente che l’ego si costituisce nell’ambito di una relazione con l’alterità stessa, relazione che, nella prima fase del suo pensiero, Derrida chiama différance(13), intendendo con tale termine non una differenza destinata ad essere dialetticamente assorbita e superata in un momento successivo e superiore, ma l’affermazione positiva di un’esistenza insuperabile nella propria singolarità.

A questo proposito, risulta illuminante il percorso filosofico compiuto da Ricœur nella seconda metà del Novecento(14). Egli, rielaborando l’eredità speculativa dei “maestri del sospetto” Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud, propone la concezione dell’io come identità narrativa che riesce ad autocomprendersi, a trovare una sua ipseità, solo nel confronto con gli altri, strutturandosi infine in una forma di soggettività descrivibile come un “Sé come un altro”. Il filosofo francese, infatti, rileggendo Freud, giunge ad una concezione del sé come contemporaneità di essere ed atto, di pensiero e concretezza:

La riflessione non è tanto una giustificazione della scienza e del dovere, quanto una riappropriazione del nostro sforzo per esistere; di questo compito più vasto l’epistemologia è solo una parte: dobbiamo recuperare l’atto di esistere, la posizione del sé in tutto lo splendore delle sue opere […] La filosofia è etica, ma l’etica non è puramente morale […] Il suo scopo è di cogliere l’ego nel suo sforzo per esistere, nel suo desiderio di essere(15)

Viene così sostituita alla semplicità irriflessiva ed immediata del cogito, la ricchezza delle forme concrete nelle quali il sé si oggettiva nel mondo e le loro possibili interpretazioni (in termini teoretici, Ricœur abbandona qui gli strumenti concettuali heideggeriani, passando a quelli lévinasiani(16)). Questa particolare concezione del sé, viene riassunta nell’espressione “metafora viva”, indicante la commistione fra creatività filosofica e realtà concreta: la metafora offre la possibilità di avere una nuova visione della realtà, “torcendo” (giocando con) il linguaggio, così da poter ridescrivere il mondo, aprendolo a nuovi progetti. La metafora può, dunque, invogliare a riplasmare la realtà, in tal modo, la riflessione filosofica ha uno specifico carattere pratico. Ora, nonostante il fatto che il parallelo con la teoria critica francofortese, sulla necessità e sulle modalità del riorientamento sociale, sia qui immediato, la specificità del pensiero ricœuriano consiste nel non essere più rivolto al cogito, ma al sé, il quale si costituisce in una relazione all’alterità non più modellata sulla dialettica servo/padrone, ma sulla scoperta di forme di alterità interne allo stesso sé, ovvero

è necessario che l’irruzione dell’altro, spezzando la chiusura del medesimo, incontri la complicità di questo movimento di eclissi attraverso cui il sé si rende disponibile all’altro da sé(17)

Nell’amicizia, Ricœur, rintraccia la chiave per avviare tale complicità, disponibilità; l’amicizia è infatti una relazione di reciprocità, nella quale a ciascuno è nota l’identità dell’altro, ma nessuno tende all’annullamento della stessa. Ora, tali considerazioni sono propedeutiche ad un ampliamento del respiro del discorso ricœuriano che, infatti, basa su di esse l’etica, intesa come l’aspirazione a «vivere bene con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste»(18), distinguendola dalla morale, intesa come una somma di norme costrittive. Tuttavia, il primato dell’etica sulla morale non deve condurre al rifiuto di quest’ultima, anzi, etica e morale, universalismo e contestualismo, devono essere tenute insieme (pur sempre in un rapporto gerarchico) da quella “saggezza pratica”, che può dare forma alla giustizia e, dunque, alla “vita buona”. Quindi, se il primo grande ambito di riflessione è quello relativo alla nostra “sensibilità” ed ai rapporti personali su di essa basati, per evitare il rischio che, come nelle tragedie del XX secolo «lo spirito di un popolo è pervertito al punto da nutrire una Sittlickheit assassina»(19), il successivo nucleo teorico deve riguardare l’applicazione istituzionale dell’etica, non solo nel campo della politica, quanto, soprattutto, in quello del diritto. Infatti

l’oggetto principale della nostra cura era il legame fra etica e politica, mentre rimaneva una impasse sullo statuto specifico del giuridico […] per quanto meravigliosa possa essere la virtù dell’ amicizia, essa non è in grado di assolvere ai compiti della giustizia e nemmeno di generarla quale virtù distinta. La virtù di giustizia si stabilisce su un rapporto di distanza dall’altro, altrettanto originario del rapporto di prossimità con l’altro, offerto dal suo volto e dalla sua voce. Questo rapporto all’altro, se possiamo osare, è immediatamente mediato dall’istituzione. L’altro, nell’amicizia, è il tu, l’altro, nella giustizia, è il ciascuno, come viene significato dall’adagio latino: suum cuique tribuere, a ciascuno il suo(20)
Insomma, Ricœur punta ad integrare la “poetica dell’amore” con la “prosa della giustizia”:

In effetti, senza il correttivo del comandamento d’amore, la Regola d’oro (la giustizia che, pur incarnandosi in giurisprudenza, resta sempre eccedente rispetto a quest’ultima) sarebbe continuamente forzata nel senso di una massima utilitaristica (come, per Ricœur, avviene in John Rawls, che riduce la società ad un’impresa di distribuzione di beni), la cui formula sarebbe do ut des(21)

Solo una reciprocità non utilitarista consente di amare l’altro come se stesso, applicando così il concetto aristotelico di philautía, inteso non tanto in senso limitativo (delle pulsioni negative) quanto in forma attiva, non solo all’amicizia ma anche al senso di giustizia, infatti

attraverso la reciprocità l’amicizia è congiunta alla giustizia […] in Aristotele stesso l’amicizia fa da transizione fra la prospettiva della ‘vita buona’ […] virtù apparentemente solitaria, e la giustizia, virtù di una pluralità umana di carattere politico […] il tratto, che a lungo sembra avvalorare quella che pare proprio una raffinata forma di egoismo, sotto il titolo di philautía, finisce per sfociare, in modo quasi inatteso, sull’idea che ‘l’uomo felice’ ha ‘bisogno di amici’. L’alterità ritrova, così, quei diritti che la philautía sembrava dover occultare […] Il versante ‘oggettivo’ dell’amore di sé farà sì che la philautía – che di ciascuno fa l’amico di se stesso – non sia mai predilezione non mediata di se stessi, ma desiderio orientato al riferimento del buono(22)

Simili problematiche etico/politiche vengono prese in considerazione anche da Derrida, a partire dalla necessità di un ripensamento delle istituzioni politiche che, nate in un contesto nazionale o continentale, sono oggi chiamate ad agire su scala globale, a rispondere responsabilmente a domande di respiro mondiale(23). Per Derrida, l’ a-venire, è il frutto della risposta che, nel presente, diamo all’eredità di cui siamo portatori, ma la risposta che, in chiave antropologica, la filosofia moderna ha dato(24), consiste nella descrizione dell’uomo come di un essere calcolabile, conseguentemente anche la morale è divenuta una faccenda di contabilità, nella quale una colpa origina un debito. Alternativamente alla “morale del dovere”, delle obbligazioni, Derrida propone un’“etica del dono”, nella quale i temi dell’amicizia, dell’ospitalità, della giustizia, dei diritti umani e del cosmopolitismo vengono definiti come delle vere e proprie relazioni etiche di risposta all’appello dell’altro, eccedenti qualsiasi norma, codice o calcolo di costi e benefici. L’etica del dono rappresenta quindi un superamento della dialettica del riconoscimento, tipica della ragione calcolante che conosce l’altro solo identificandolo secondo le categorie della propria razionalità, ed una conseguente sopportazione dell’aporia del non sapere sull’altro; in altri termini, si tratta qui di un

rifiuto ontologico del tradizionale soggetto forte, del cogito della filosofia occidentale […] (con conseguente presa di posizione) nei confronti delle strutture politico-istituzionali che costituiscono e regolano il nostro lavoro, le nostre competenze e le nostre prestazioni […] (elaborando così) una nuova problematizzazione della responsabilità, problematizzazione che non necessariamente prende per buoni i codici ricevuti dal politico e dall’etico(25)

In questi termini, la giustizia si configura innanzi tutto come una “legge di giustizia” che, senza comandare ed ordinare nulla di particolare, indica verso un senso di ospitalità, scardinante i vincoli e i limiti identitari; essa rappresenta «lo spirito di ciò che orienta o fonda il diritto»(26).
Esiste però una problematica, inerente all’applicazione della legge di giustizia alla pratica politica: tale applicazione può infatti avvenire solo tramite delle leggi condizionate, le quali generano il rischio di un decadimento del senso della legge di giustizia in mere considerazioni economiche, calcolanti (come oggi spesso accade). Si impone così la necessità di articolare un diverso pensiero politico, originante una nuova democrazia-a-venire, nella quale il diritto rimanga costantemente ispirato a qualcosa di superiore ed incontaminabile dalla politica e dal diritto stesso, infatti

la giustizia è diversa dal diritto al quale tuttavia è così vicina, e in verità inscindibile […] Voglio subito insistere per riservare la possibilità di una giustizia, o di una legge che non solamente eccede o contraddice il diritto, ma che forse non ha alcun rapporto con il diritto, oppure ha con esso un rapporto così strano che può tanto esigere il diritto quanto escluderlo(27)

Il principale risvolto politico di tale impostazione risiede nel fatto che, se il diritto è la forma storica della giustizia, esso può manifestarsi solo con un atto di forza, attraverso un potere, un’autorità riconosciuta che lo istituisce. Tuttavia, il fondamento della “forza di legge” è un “fondamento mistico” poiché si giustifica da sé, affermando l’impossibilità di un principio superiore “meta-giuridico”, sicché il diritto, “rappresentante in terra della giustizia”, non ha alcun’altra legittimazione che quella dell’atto di violenza, il quale però, non costituisce un atto ingiusto: la fondazione del diritto si pone anteriormente al diritto stesso, e dunque al di fuori di esso, e non può pertanto essere giudicata con categorie giuridiche (similmente a quanto sostiene Hans Kelsen in merito alla Grundnorm)(28).
Tutto ciò si condensa nell’esigenza di ripensare le grandi idee della nostra tradizione culturale, a cominciare da quelle di uguaglianza, libertà e fraternità; l’amicizia rappresenta il vettore tramite il quale operare tale reinterpretazione. Infatti, quelle relazioni, ed il modello di democrazia da esse derivanti, sottintendono sia una simmetria nella quale chi dona è autorizzato ad aspettarsi qualcosa in cambio, sia una “teologia politica ispocentrica”:

il parricidio e il regicidio non sono senza rapporto con una certa interpretazione genealogica, filiale e soprattutto fraternalista dell’uguaglianza democratica (libertà, uguaglianza, fraternità): lettura del contratto ugualitario istituito tra dei figli e dei fratelli rivali nella successione del padre, per la (s)partizione del kratos nel demos […] perfino dalla teologia politica inconfessata, e altrettanto fallocentrica, fallo-paterno-filio-ispocentrica, della sovranità del popolo – in una parola della sovranità democratica. L’attributo ‘ispocentrico’ attraversa e unisce in un sol tratto tutti gli altri attributi(29)

Al contrario, l’amicizia è una relazione asimmetrica, dissimmetrica, nella quale il dono è sempre eccessivo, immotivato e, soprattutto, incondizionato:

è possibile pensare e mettere in pratica la democrazia, sradicandovi quel che tutte queste figure dell’amicizia (filosofica e religiosa) vi prescrivono di fraternità, ovvero di famiglia e di etnia androcentrica? E’ possibile, facendosi carico di una certa memoria fedele alla ragione democratica ed alla ragione tout court, direi anzi ai lumi di una certa Aufklärung (lasciando così aperto l’abisso che si apre ancora oggi sotto queste parole), non già fondare, laddove non si tratta indubbiamente più di fondare, ma aprire all’avvenire, o piuttosto al “vieni” di una certa democrazia?(30)

In qualsiasi modo si voglia rispondere a tali questioni, il solo fatto che esse siano state in tal modo poste, il solo fatto che una parte non indifferente della filosofia contemporanea abbia concentrato la sua attenzione sul tema dell’alterità, testimonia della necessità (e, direi, dell’urgenza) di un’integrazione fra prospettive filogenetiche ed ontogenetiche; «non ha molto senso decostruire la comunità se non si decostruisce l’individuo»(31).

1) «Conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere a partire da niente o a ridurlo a niente, privarlo della sua alterità», E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1990, p. 41.

2) P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, pp. 15-16; cfr., sullo stesso tema, P. Ricœur, Il Giusto, SEI, Torino 1998.

3) A. Da Re, Figure dell’etica, in C. Vigna (cura), Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 110.

4) Su Lévinas cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, G. De Gennaro, Lévinas profeta della modernità, Lavoro, Lecce 2000, S. Malka, Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 2003, F. Salvarezza, Emmanuel Lévinas, Mondadori, Milano 2003, e M. Vitali Rosati, Riflessione e trascendenza, ETS, Pisa 2003.

5) Tali osservazioni lévinasiane si riferiscono in particolar modo alla “quinta” delle “meditazioni cartesiane” di Husserl, cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Armando, Roma 1999, su ciò anche C. Dovolich, Pensare l’alterità, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, Mimesis, Milano 2003, e G. Lissa, Emmanuel Lévinas, in Ibidem.

6) Cfr. di E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1998, e Il volto infinito, Palomar, Bari 1999.

7) Nota del traduttore in E. Lévinas, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 1993, p. 63; per un chiarimento dell’idea lévinasiana di alterità cfr., dello stesso autore, Alterità e trascendenza, Il Melangolo, Genova 2006.

8) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., pp. 43-44, parentesi mia; ed ancora: «La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia. Una riduzione dell’Altro al Medesimo», Ibidem, p. 36; su quest’opera cfr. C. Canzi, Genealogia di Totalità e infinito, ExCogita, Milano 2004. Il confronto con l’eredità husserliana ed heideggeriana è fortemente presente anche in E. Lévinas, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 2001. Un possibile superamento degli esiti solipsistici dell’ontologia grazie all’etica come dimensione relazionale è presente anche in G. Vaccaro, Dall’esistenza alla morale, Cadmo, Firenze 1996.

9) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45; su questo cfr. G. Palumbo, Inquietudine per l’altro, Fondazione Vito Fazio-Allmayer, Palermo 2001.

10) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 220.

11) S. Natoli, Che cosa sono i valori, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it.

12) S. Natoli, L’etica della vita quotidiana, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it, parentesi mia.

13) Sulle tematiche della differenza e dell’alterità nel Novecento cfr. F. Colombo, Rappresentazioni dell’Altro, Guerini, Milano 1999, e A. Ales Bello, Le figure dell’altro, Effatà, Torino 2000.

14) Su Ricœur cfr. A. Montalto, Storia, tempo e racconto in Paul Ricœur, Falzea, Reggio Calabria 2001, D. M. Conanzi, Paul Ricœur, Giappichelli, Torino 2004, F. Brezzi, Introduzione a Ricœur, Laterza, Roma 2006, e J. Michel, Paul Ricœur: une philosophie de l’agir humain, Les Editions du Cerf, Paris 2006.

15) P. Ricœur, Dell’interpretazione, il Saggiatore, Milano 1967, pp. 60-61; sulla definizione del sé come potenza ed atto cfr. anche P. Ricœur, Verso quale ontologia?, in Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2002.

16) Per un confronto fra Lévinas e Ricœur cfr. L. Pialli, Fenomenologia del fragile, Ed. Scientifiche italiane, Napoli 1998, e L. Margaria, Passivo e/o attivo, Armando, Roma 2005.

17) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 262, e cfr. P Ricœur – G. Marcel, Per un’etica dell’alterità, Lavoro, Roma 1998; sulla transizione ricœuriana delle dialettiche identitarie dal cogito al sé cfr. P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento: tre studi, Cortina, Milano 2005, M. Pulito, Identità come processo ermeneutico, Armando, Roma 2003, e L. Altieri, La metafora di Narciso: il Cogito itinerante di Paul Ricœur, La Città del Sole, Napoli 2004.

18) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 470.

19) Ibidem, p. 362.

20) P. Ricœur, Il Giusto, cit., pp. 3 e 9, lo stesso autore, infatti, differenzia «le relazioni interpersonali, il cui emblema è l’amicizia, dalle relazioni istituzionali, aventi per ideale la giustizia», P. Ricœur, La persona, Morcellania, Brescia 2006, p. 18; sulla questione della giustizia cfr., dello stesso autore, Il male, Morcellania, Brescia, 1993, e L’idea di giustizia, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it.

21) P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, p. 40, parentesi mie; sulle tematiche socio-politiche di Ricœur e Derrida cfr. A. M. Nieddu, Amicizia e solitudine tra ricerca di autenticità ed esigenza di giustizia, in C. Di Marco (cura), Un mondo altro è possibile, Mimesis, Milano 2004.

22) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., pp. 279, 277 e 278; cfr. A. Bruno, Un’etica della finitezza, Milella, Lecce 2000.

23) Come testimonia il Colloquio di Royamont (1990), dal titolo L’etique du don, successivo a quello di Cerisy-la-Salle (1980), intitolato Le fins de l’homme; su Derrida cfr. M. Vergani, Jacques Derrida, Mondadori, Milano 2000, C. Resta, L’evento dell’altro: etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003, M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma 2005, A. Andronico, La disfunzione del sistema: giustizia, alterità e giudizio in Jacques Derrida, Giuffrè, Milano 2006, e M. Iofrida (cura), Apres coup l’inevitabile ritardo: l’eredità di Derrida e la filosofia a venire, Bulzoni, Roma 2006 (Atti delle giornate di Studi in memoria di Jacques Derrida; Bologna 13-14 Giugno 2005).

24) Derrida si riferisce in particolar modo a F. Nietzsche, Genealogia della morale (UTET, Torino 2003), specificatamente alla Seconda dissertazione, contrapponendolo al non-sapere sull’altro, esito ultimo di E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., su ciò cfr. i lavori di C Dovolich, Derrida tra differenza e trascendentale, Mimesis, Milano 1995, Il soggetto etico e la decisione, in «Fenomenologia e società», n. 2, 1999, e Derrida di fronte alla questione etica, in C. Di Marco (cura), Percorsi dell’etica contemporanea, Mimesis, Milano 1999.

25) J. Derrida, Mochlos o il conflitto delle facoltà, in «aut-aut», n. 208, 1995, pp. 13, 40 e 31, parentesi mie.

26) J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 45; cfr. anche J. Derrida, Sull’ospitalità, Baldini&Castoldi, Milano 2000.

27) J. Derrida – A. Dufourmantelle, L’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 53, e J. Derrida, Forza di legge – Il «fondamento mistico dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 50; a proposito del concetto di “forza di legge”, lo stesso Derrida (cfr. Nome di Benjamin, in Ibidem) afferma di avere ragionato attorno a W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus (Einaudi, Torino 1995).

28) Cfr. S. Regazzoni, La decostruzione del politico: undici tesi su Derrida, Il Melangolo, Genova 2006.

29) J. Derrida, Stati canaglia, Cortina, Milano 2003, pp. 38-39.

30) J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 1995, p. 361.

31) A. Masullo, Considerazioni sull’estraeno, in M. Fimiani (cura), Philía, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 30.

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