giovedì 18 febbraio 2016

Federico Sollazzo, "Tra totalitarismo e democrazia. La funzione pubblica dell’etica"

di Moira De Iaco (moiradeiaco@libero.it)

Il libro di Federico Sollazzo Tra totalitarismo e democrazia. La funzione pubblica dell’etica – arricchito nella nuova edizione digitale della Kkien Publishing International dal testo iniziale “Quando una crisi non è un’opportunità: la coincidenza con ciò che si vorrebbe superare” – risponde a un’istanza fortemente attuale, quella di riflettere sulla forma politica e morale delle democrazie occidentali liberali fondate sulla razionalità strumentale. Assolvere il compito di svelare quello che Sollazzo chiama “totalitarismo post-totalitario” affrontando temi e autori della filosofia morale e politica contemporanea, permette a quest’opera di presentarsi come un’indispensabile strumento per studenti e studiosi intenti a riflettere sulla crisi totalizzante del nostro tempo. La prospettiva, come l’autore si preoccupa di precisare nella premessa, non è quella di auspicare un nostalgico e obsoleto ritorno al passato, bensì quella di indagare “la struttura pratico-operativa e ontologica della società occidentale” (p. 4) in vista del conseguimento di un pacifismo sociale. 

Il lavoro si articola in quattro capitoli preceduti da un saggio iniziale e seguiti da un’importante bibliografia ragionata. L’eterodeterminazione, da intendersi come una forma di autodeterminazione indirizzata e vincolata a forme e modalità prestabilite,  come prodotto del tempo in cui ci troviamo a vivere, è l’oggetto di riflessione dell’articolo introduttivo: l’Essere della nostra epoca, il soggetto impersonale che governa la vita di chi vive in questo tempo, è la razionalità strumentale. Il suo avvento viene efficacemente descritto con la dialettica hegeliana servo-padrone: il capitale, l’Essere, “schiavizza la tecnica per potersi incrementare e moltiplicare con efficienza, il capitale è il padrone, la tecnica il servo” che hegelianamente è diventato il padrone – e dunque l’Essere del nostro tempo – schiavizzando il capitale (p. 6). L’uomo risulta quindi dominato dalla razionalità strumentale che ne determina tanto gli atteggiamenti, i ragionamenti, i bisogni e i desideri orientandoli in modi e forme e prestabilite quanto le relazioni sociali che entro questo quadro sono immodificabili. L’individuo così conformato, non eccedente la razionalità strumentale ma ad essa coincidente, è un esecutore di funzioni economiche e sociali che indossa delle maschere. In una tale società, Sollazzo evidenzia come lo stesso pluralismo politico tanto sbandierato dalle democrazie occidentali sia solo “formale e nominale”, “una lista dicliché”; infatti, misura quantità e non esprime qualità (p. 7). Al soggetto, che corre costantemente il rischio di costruirsi entro l’ordine prestabilito, nessuna differenza gli è garantita, non gli resta che un movimento di sottrazione, chiave d’accesso a un territorio di pura negatività dove soltanto è possibile generare qualcosa di autentico e originale.
Le riflessioni di Hannah Arendt costituiscono il punto d’avvio dell’analisi delle origini storico-filosofiche del totalitarismo a cui è dedicato il primo capitolo. Viene proposta l’argomentazione arendtiana sulla degenerazione operata dal cristianesimo e dal marxismo della sfera privata e di quella pubblica così come esse erano intese nel modello ideale di comunità della pòlis greca al tempo di Pericle. La politica è stata assorbita dal sociale, il quale domina la sfera di quei compiti atti alla sopravvivenza che prima erano privati.  Le attività fondamentali che costituiscono la condizione umana per la Arendt, il lavoro, l’opera e l’azione che si collocano necessariamente nella dimensione pubblica e in quella privata, hanno perso la propria autenticità. Infatti, con la distinzione di Marx tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo che corrispondono alle categorie arendtiane di lavoro e opera, quest’ultima, intesa come prodotto di ciò che l’uomo fabbrica con le proprie mani, è stata ridotta al lavoro finalizzato esclusivamente al mantenimento della vita biologica, facendo cadere la differenza tra homo faber animal laborans. In epoca moderna, “il fabbricare dell’homo faber non viene più inteso come un modo per produrre cose e dominare la natura, bensì come un processo lavorativo finalizzato unicamente alla produzione di ciò che deve essere consumato, per garantire la sopravvivenza dell’uomo” (p. 14). È per questo che nella modernità il tempo dell’animal laborans coincide con quello del consumo con l’imposizione, scrive Sollazzo, della “dinamica di (ri)produzione (soggetta a criteri di efficienza e funzionalità) e consumo (sfruttamento dell’esistente), che reca con sé i germi della mentalità totalitaria” (p. 15). Ecco che lo spazio pubblico dell’homo faber ha carattere commerciale e non più politico, mentre l’animal laborans risulta del tutto privo dello spazio pubblico e tale privazione è pre-condizione del sistema totalitario. Se in Vita activa la Arendt, con la sua critica della modernità, ha illustrato più che altro le origini ideologiche del totalitarismo, ne Le origini del totalitarismo ha invece ripercorso il processo storico che ha portato alle dittature europee e alla seconda guerra mondiale. Sollazzo giunge a ritenere che, al fine di evitare un nuovo ritorno del male che ha afflitto l’Europa nella prima metà del Novecento, sia fondamentale proprio la comprensione dell’essenza di tale male piuttosto che quella delle sue particolari manifestazioni storiche. Il totalitarismo si caratterizza per un determinato uso della politica ai fini del controllo sulla vita e ciò gli è stato permesso dalla crisi storica e teoretica della democrazia: il progredire della burocrazia amministrativa statale ha allontanato lo Stato dalla società civile deresponsabilizzandola sempre più politicamente, rendendo lo Stato “un’entità indipendente e impersonale” e creando un vuoto sociale entro il quale ha trovato spazio d’azione il totalitarismo. Sollazzo scrive perciò che “uno smarrimento dell’uomo a se stesso sembra allora essere l’humus ideale per l’avvento di qualsiasi perversione politica, smarrimento superabile con una sorta di nuovo umanesimo in cui l’uso della ragione non sia solo fonte di responsabilità politica, ma di libertà” (p. 17) e congiunge l’analisi sul concetto di responsabilità di Karl Jaspers con quella di Hannah Arendt sulla crisi della capacità di giudizio per arrivare poi a inquadrare la biopolitica come l’eredità del totalitarismo. Il biopotere, presente tanto nei regimi totalitari tanto in quelli democratici, inteso come potere politico “garante della sicurezza, della salute e della prosperità di un intero popolo”, “con tutte le conseguenze antropologiche e ontologiche” che comporta, è una forma di controllo totale e totalizzante. L’alternativa a questa forma di dominio sociale è – ed è questo un nucleo importante dell’opera di Sollazzo – il conferimento di un contenuto etico alla pratica politica; c’è dunque bisogno di un’etica umana al servizio della politica, un’etica “fatta dagli uomini per loro stessi” nella consapevolezza dei limiti della loro finitudine senza assoggettamenti a poteri di tipo naturalistico, storico o metafisico (p. 18). Lo Stato deve pertanto avere a suo fondamento etico la persona, con la sua rete di interazioni con il prossimo e la sua possibilità di sviluppo di una vita associata unitaria, e non l’individuo, isolato, indiviso, aggregato alla massa e da essa disgregato. L’origine del male politico è sempre il disimpegno del pensiero e il conseguente rimettersi delle “proprie responsabilità a una ratio ipertrofica”. La persona deve riprendersi la responsabilità politica e morale dello spazio pubblico senza delegare a forze secolari o trascendenti le sue decisioni etico-politiche. Nella modernità il pensiero si è trasformato “in mero calcolo finalizzato alla sopravvivenza”, “il lavoro in impiego funzionale alla vita della specie, e ogni attività in un processo rivolto unicamente al mantenimento della vita” (p. 21) e l’uomo “ha allontanato da sé la capacità di costruire partecipativamente il mondo” provocando l’assenza di un mondo comune, di uno spazio politico in senso originario, nel quale “potersi dare autonomamente dei precetti pratici, oscillando così fra una solitudine individualistica e un’anonima massificazione” (p. 21). Sia con il sopravvento del fabbricare dell’homo faber con la rivoluzione scientifica, sia con quello successivo dell’animal laborans nella società capitalistica e industrializzata, si giunge per motivi diversi alla “perdita del significato politico antico dell’azione” correndo il rischio del totalitarismo come diretta conseguenza della spoliticizzazione della vita (p. 22). Per analizzare il rapporto tra capitalismo e totalitarismo vengono presi in esame da Sollazzo: l’interpretazione di Marcuse che individua la genesi del nazismo nel passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico, nel quale industria, partito ed esercito vengono accomunati dagli stessi interessi incarnati dal Führer; quella di Friedrich Pollock che vede il nazismo come la versione totalitaria del capitalismo di Stato e quella concorde con Pollock di Horkheimer, il quale “specifica come la stabilizzazione economica statale avvenga tramite una trasformazione dei rapporti fra politica ed economia” (p. 22) e quella discordante di Franz Neumann per il quale il nazismo è un non-Stato e non può essere quindi una forma di capitalismo di Stato; egli dice che “il nazismo riesce a mantenersi economicamente dinamico e produttivo non perché abbia eliminato l’autonomia del mercato, come per Pollock ed Horkheimer, ma nonostante abbia eliminato i meccanismi del mercato: esso impone un potere politico totalitario che alimenta l’economia unicamente per soddisfare in maniera diretta ed immediata le proprie esigenze” (p. 22). Marcuse, che ha sintetizzato le posizioni all’interno dell’Istituto, giunge a sostenere che lo Stato totalitario ha trasformato i rapporti economici in rapporti politici e ha monopolizzato l’economica strumentalizzandola ai propri fini (p. 24). L’identificazione degli interessi industriali con quelli statali toglie alle industrie ogni forma di indipendenza. Tra la politica e la società non esiste alcuno scarto nello stato totalitario: ogni relazione sociale si fa politica. Perfino il tempo libero viene infatti politicizzato in modo che niente possa sfuggire al controllo del Reich e nessun pensiero critico possa svilupparsi. Marcuse evidenzia come nello stato nazista la “razionalità tecnica” domini la massa, tutte le relazioni sociali sono infatti “all’insegna della velocità, della produttività e dell’efficienza” (p. 24). Egli aveva inoltre previsto come “il superamento della forma mentis nazista sarebbe avvenuto solo proponendo, in alternativa a quella nazista, una società altrettanto efficiente ma in grado di conservare le libertà politiche liberali, che il nazismo ha dovuto abolire”, ovvero la società consumistica poi  descritta ne L’uomo a una dimensione (p. 25). Mentre per la Arendt lo Stato totalitario si sviluppa da precondizioni quali l’antisemitismo e l’imperialismo, attraverso specifici meccanismi e giunge alla sospensione del diritto, per Marcuse è “una tappa della generale evoluzione del sistema capitalistico-industriale che si manifesta in forme storiche diverse” (p. 25). Questa interpretazione permette a Marcuse di intravedere negli anni Settanta il fenomeno che noi oggi chiamiamo globalizzazione. Il cittadino-modello dello Stato totalitario è allora quell’individuo che, rifuggendo la responsabilità del Selbst denken, presenta un’assenza di pensiero e un’atrofia della facoltà di giudizio. Il funzionario nazista, l’antisocratico per eccellenza incapace di dialogare con se stesso, non può far altro che, dice Sollazzo, “obbedire cadavericamente alle norme del contesto in cui vive, qualsiasi esse siano” (p. 26). L’umanità dell’uomo da dato quale dovrebbe essere diviene progetto, che può essere realizzato solo in quanto viene scelto e praticato all’interno di una prospettiva di ripristino di un mondo comune, di recupero del giudizio inteso in senso arendtiano come “un’intuizione che non necessita di alcuna fondazione filosofica poiché nasce dal e si nutre nel confronto con gli altri” (p. 28). La Arendt ha trovato in Eichmann la conferma della banalità del male: il gerarca nazista è privo di capacità di giudizio, incapace di pensare autonomamente e criticamente con credenze religiose-mitiche quali quella in un Dio come “Essere razionale superiore” (Höherer Sinnesträger) che conferisce senso alla vita che altrimenti ne sarebbe priva. Il male compiuto da Eichmann – “colui che porta gli ordini” (Befehlsträger) per i nazisti – “nasce dalla mancata comprensione della natura delle sue azioni (egli agì sempre eseguendo gli ordini, indipendentemente da quali essi fossero), che la Arendt definisce più dettagliatamente, rispetto al socratico termine di ignoranza, come una crisi della facoltà di giudizio, sempre possibile laddove venga meno uno spazio pubblico condiviso dagli uomini” (p. 29). Sollazzo rileva a questo proposito come i crimini dell’olocausto siano stati commessi non da assassini, bensì da burocrati, da funzionari perfetti esecutori di ordini e anche chi ha ordinato questi crimini si è ritenuto esecutore di un progetto superiore, quello ideologico, in una prospettiva priva di quel confronto con gli altri, di quello spazio comune, da cui dipende la sopravvivenza e l’espansione della capacità di giudizio. È per questo che il rischio che eventi come quello della Shoah possano ripetersi è sempre presente e dobbiamo guardarci bene dal ritenerli parentesi storiche oggi irripetibili. Sollazzo ci mostra come, dopo il crollo dei regimi totalitari, il controllo sociale sia passato dalle mani della violenza a quelle miti del linguaggio, in quanto viene esercitato attraverso una manipolazione linguistico-concettuale. Il potere è quindi interessato a un regime di conformismo che non presenta alcuna possibilità di rigetto. Ecco che la filosofia deve svolgere il compito di opporsi costantemente “all’ordine del giorno, alla supina accettazione dell’esistente, a quelle ‘contingenze secondarie’ (poiché la “contingenza primordiale” è quella della finitudine umana) che pretendono docilità, obbedienza, subordinazione. La filosofia, insomma, deve essere una “filosofia del notturno” che, in quanto tale, si oppone a tutte le potenze affermative e positive che vogliono l’assoggettamento della possibilità alla realtà” (p. 31). La marcusiana concezione di sistema serve allora al nostro autore per spiegare come in epoca contemporanea non vi sia solo l’inibizione di un pensiero critico, ma anche il riconoscimento di questa repressione e ciò è l’esito della “desublimazione repressiva”, ovvero “dell’assorbimento e dell’appiattimento in un’unica dimensione di tutte quelle forze culturali ed artistiche che, nella società pre-tecnologicizzata, costituivano una dimensione opposta a quella reale” (p. 32). Anche il linguaggio, ormai semanticamente depauperato, rientra in questo processo di desublimazione repressiva,  non è infatti più in grado di produrre riflessione e critica. L’uomo che vive in tale unica dimensione vede la ragione identificata con la realtà. Per questa via, attraverso la crisi della sovranità dello Stato-nazione, si è giunti all’Impero che vede la sovranità collocarsi nelle mani di una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti in una sorta di sovranità globale che esercita il suo controllo facendo veicolare e legittimare le regole dall’industria della comunicazione e dello spettacolo, normalizzando così la società. Sollazzo ci ricorda come anche Pasolini abbia ravvisato nel capitalismo un grande fenomeno culturale inaugurante una vera e propria “mutazione antropologica”, a causa di una modificazione materiale (i nuovi oggetti prodotti) e mentale (il nuovo linguaggio utilizzato) del mondo. Anche lui vede nel conformismo consumistico una nuova forma di controllo sociale che opera omologando materialmente e culturalmente gli individui ed individua in una sorta di ribellione costruttiva l’unica via di miglioramento sociale. Tuttavia, per Pasolini, differentemente che per Marcuse, “il movimento del ’68 non rappresenta altro che un momento di ribellismo borghese destinato, in ultima istanza, a confermare il sistema esistente” (p. 37). È importante osservare come le varie interpretazioni critiche dell’epoca moderna siano legate dalla comune “constatazione dell’eliminazione, in essa, della forza del pensiero autonomo, ovvero di quell’ultima possibilità di resistenza al male, di quella forza, potenzialmente propria di ogni uomo, che permette di mantenere la propria assoluta libertà” (p. 38).

Nel secondo capitolo viene affrontata la democrazia intesa come la risposta ai mali della politica, ma anch’essa portatrice di limiti quali quello “della cristallizzazione di determinate regole e procedure” superabile, sottolinea Sollazzo, “mantenendo una costante rivedibilità delle norme, alla cui (ri)definizione possa partecipare chiunque, avendo i requisiti necessari, desideri farlo”(p. 39). A Platone teorico antico del totalitarismo, viene fatto corrispondere Hegel in epoca moderna. I due pilastri della filosofia hegeliana – la dialettica, il cui sviluppo coincide con quello del progresso e si concretizza nello Stato, e la filosofia dell’identità che vede venire a coincidere reale e razionale, per cui tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale – sono diventati infatti, loro malgrado, strumenti del moderno totalitarismo generando idee quali: il nazionalismo, inteso come l’incarnazione dello Spirito nello Stato; la concezione di una “inimicizia naturale” fra uno Stato e tutti gli altri; l’“eticizzazione” della guerra; il mito del “Grand’Uomo”; l’ideale della vita eroica. Ovviamente, quale trasposizione materialistica dell’hegelismo, il pensiero di Karl Marx risulta profondamente intriso di quegli stessi errori di cui si nutre: il materialismo storico e dialettico rappresenta una sorta di storicismo economico. Popper, che è qui l’autore di riferimento, propone come alternativa a ogni forma di autoritarismo e di  storicismo il modello della “società aperta”: questa è caratterizzata dall’accoglimento e dal confronto di una molteplicità di prospettive e valori filosofici, religiosi e politici, che possono essere quindi diversi e anche contrastanti (pp. 45-46). La tolleranza è per Popper il principio della società aperta giacché la conoscenza umana è soggetta alla fallibilità e perché abbiamo un politeismo di valori, l’etica infatti non è una scienza e i valori ultimi sono frutto di argomentazioni e di un confronto, vengono quindi scelti da ciascuno: la società può dirsi aperta solo in quanto i valori dell’etica non sono fondati né fondanti, non sono principi necessari, ma vengono edificati dal confronto di opinioni. Il quesito che pone il nostro autore a questo punto è: come superare l’impasse di un governo di uomini fallibili con idee fallibili che devono governare uomini fallibili con altrettante idee fallibili? Le regole fissate da Popper ed elencate da Sollazzo per risolvere tale questione in vista della pratica politica, in sintonia con Hannah Arendt,  volgono alla sostituzione dell’idea della democrazia come governo del popolo con quella della democrazia come “giudizio del popolo” (p. 47) per cui se la maggioranza mette in crisi lo spirito democratico essa va rimossa dalla minoranza per non correre il rischio dell’affermazione di una tirannide. Bobbio come la Arendt costruisce le proprie argomentazioni partendo da un confronto con la cultura greca e assumendo prima di tutto che la concezione periclea della democrazia, secondo la quale esistono degli immutabili valori ultimi quali la libertà e l’eguaglianza che la distinguono da tutte le altre forme di governo, è ancora valida ma non può essere perseguita attraverso regole rigorose: a essa “si può solo tendere tramite dei principi generali, degli “universali procedurali” che, di volta in volta, designano la metodologia che viene ritenuta idonea per la realizzazione della democrazia” (p. 48). Quest’ultima è dunque un mezzo la cui importanza risiede nel fatto che ad essa si tende, ma in quanto tale, nella sua perfezione, essa non può essere raggiunta. Sollazzo ci mostra quindi, fornendoci anche un significativo schema, come la libertà, che Bobbio distingue in libertà negativa e libertà positiva, sia sempre soppressa con l’instaurarsi di una qualsiasi forma di potenza per cui la storia dell’Occidente è segnata da lotte di liberazione contro il dogmatismo, contro il potere economico e contro le manipolazioni della politica. Sollazzo riporta la descrizione storica e concettuale della democrazia giungendo a mostrarci come la passivizzazione politica dei cittadini sia il principale ostacolo alla realizzazione della democrazia: “l’apatia politica non conduce solo ad un generale disinteresse nei confronti della dimensione politica, ma anche ad una deresponsabilizzazione nell’uso del proprio voto (del quale anche i politicamente passivi, apatici dispongono) utilizzato come una merce di scambio, in base a quel do ut des, già denunciato alla propria Camera dei deputati da Tocqueville, che in pieno Ottocento” (p. 51). Alla mercificazione del voto si affianca il problema del “potere invisibile” in base al quale è lecito che lo Stato secreti determinate questioni: ciò mina profondamente la democrazia, giacché se un’azione viene resa segreta vuol dire che se fosse pubblica non sarebbe lecita e questo è inconcepibile da parte di uno Stato democratico. Il governo della democrazia non può che essere il governo del potere pubblico in pubblico. Sollazzo ci dimostra a ragione come esso sia per Bobbio e per Zagrebelsky non una formula scientifica, bensì “un valore che può essere realizzato in molteplici (forse infinite) modalità, a patto che queste non ne alterino l’essenza, lo spirito”. L’unico modo per non tradire lo spirito della democrazia e di evitare che essa si trasformi in totalitarismo è quello d’intenderla come una categoria filosofica: “il totalitarismo è un rischio insito all’interno della stessa democrazia (basti ricordare la felice espressione tocquevillina di “dispotismo democratico”), ed il rispetto di specifiche regole procedurali non mette al riparo da tale pericolo. È invece necessaria una generale comprensione dell’essenza della democrazia, intesa non come una determinata forma di governo politico, bensì come un valore. Solo comprendendo lo spirito della democrazia, si può realizzare unademocrazia” (p. 53).
Il terzo capitolo dedicato alle etiche pubbliche prende avvio dall’analisi della riabilitazione della filosofia pratica avvenuta in Germania agli inizi degli anni sessanta che vede come suo padre putativo Gadamer per quanto poi dalla sua filosofia si discosti nella molteplicità delle teorie che la costituiscono, fra le quali fondamentale è sicuramente quella dell’etica del discorso o etica comunicativa messa a punto da Karl-Otto Apel e Habermas. L’etica comunicativa individua nel discorso lo strumento “per dirimere i conflitti morali, attraverso un accordo che legittimi l’esistenza di norme universali” (p. 55). Per Habermas “la strutturazione delle regole funzionali all’amministrazione della società da parte del potere pubblico, avviene attraverso una modalità senza precedenti: la pubblica argomentazione razionale” (p. 56).  Lo Stato minimo si configura, entro la prospettiva delineata dal nostro autore, non solo come uno Stato necessario, ma addirittura come l’unico Stato giustificabile, poiché soltanto esso riesce contemporaneamente ad evitare l’anarchia ed a garantire che la libertà individuale non venga limitata dagli interessi statali. Se la razionalità è sempre contestualizzata, ciò vuol dire tuttavia che l’ordinamento sociale liberista che Nozick vede compiersi nello stato minimo, può essere il migliore ordinamento sociale per la moderna società occidentale, ma non il migliore in assoluto. All’interno del movimento di riabilitazione della filosofia pratica che tenta di riconciliare l’etica con la politica, si colloca anche la riflessione neocontrattualista. Sollazzo ci mostra come il contrattualismo in chiave di strumento di giustizia sociale sia stato infatti ripensato da Rawls “come il possibile trait d’union tra la sfera dell’etica e quella della politica” (p. 61), le quali risultano distanti in epoca moderna giacché la politica si occupa di questioni quali le innovazioni tecnologiche, le scoperte dell’ingegneria genetica, la globalizzazione, la crisi del Welfare e l’avvento delle società multietniche ignorando il dibattito etico che le concerne. La giustizia, invece, deve essere una priorità per le leggi e le istituzioni e Rawls rifiuta perciò il principio dell’utilitarismo per cui il bene della maggioranza deve affermarsi a discapito della minoranza. Cercando di conciliare la posizione del liberalismo con quella del marxismo-leninismo che hanno rispettivamente assolutizzato i valori della libertà individuale e quelli dell’uguaglianza sociale, Rawls elabora “una forma di contratto sociale negoziato” ignorando “la posizione che ciascun uomo occupa nella scala sociale” (p. 62). Tale neocontrattualismo si differenzia dalle classiche teorie contrattualistiche in quanto il suo scopo non è quello di “giustificare razionalmente l’esistenza dello Stato e del suo potere politico”, bensì quello di “generare un modello di società giusta” (p. 62). A tal fine Rawls enuclea degli imprescindibili principi di giustizia quali la disposizione per ciascuno di un’ampia possibilità di libertà compatibilmente con una pari libertà altrui e l’ammissione di una distribuzione diseguale di ricchezze e potere solo a condizione che ne derivino dei benefici per tutti. Sollazzo argomenta come a suo parere le teorie rawlsiane rappresentino il più grande progetto di revisione del liberalismo. Seppur con i limiti che il nostro autore non manca di rilevare, hanno avuto il merito di “riossigenare il discorso culturale sulle questioni socio-politiche”, ponendo un’alternativa al liberalismo da una parte e al comunitarismo dall’altra (p. 63). L’individualismo, legato alle teorie politico-economiche liberali e qui inquadrato come una conseguenza della perdita di ampi orizzonti morali in grado di dotare di senso l’esistenza fornendo prospettive di tipo religioso, politico o storico e come “causa della perdita di un complessivo significato esistenziale, la scomparsa del quale rende l’uomo una sorta di materia prima utilizzabile strumentalmente per il raggiungimento di determinati standards di efficienza” (p. 67), pone come necessario il recupero di un orizzonte di riferimento nel quale ci si possa confrontare dialogicamente, ovvero l’appartenenza a una comunità. Sollazzo sottolinea come “la persona, ben lungi dall’essere un soggetto individuale indivisibile, come il termine individuo vorrebbe” sia da considerarsi “come un insieme di elementi diversi, nessuno dei quali determinante per l’identificazione dell’identità, ma ciascuno contribuente alla costituzione della stessa. Pertanto, asserire che l’identità personale dipende da ragioni comunitarie significa ridurre l’identità stessa ad uno solo degli elementi che la costituiscono (nel caso specifico, l’appartenenza ad una data comunità), scelto arbitrariamente, in base a priorità soggettive. Ora, benché la scelta di tali priorità sia un’ineludibile esigenza esistenziale, è importante che essa sia consapevole, affinché ciascuna persona sappia di essere una somma di diversi elementi, ordinati “gerarchicamente”, e non l’espressione di un solo fattore” (p. 70). Venendo dunque a capo di quelle che sono le esigenze etiche della modernità, dato il venire meno della distinzione tra conoscere ed agire e il venire a coincidere di sapere e potere, il nostro autore ci mostra come un’etica per la moderna società tecnologica debba essere “un’etica  cosmica, che coinvolga tutto il genere umano e che sia proiettata verso il suo futuro”; un’etica che deve uscire dalla prospettiva antropocentrica “e prendere in considerazione le conseguenze insite nel sapere/potere tecno-scientifico” (p. 73). L’orizzonte dell’etica diviene dunque quello della preservazione della vita di tutti i viventi e del loro ambiente mettendo l’uomo nelle condizioni di prendere coscienza delle responsabilità verso se stesso, gli altri ed il mondo e di acquisire di pari grado “la consapevolezza di essere l’artefice della storia, con tutto ciò che questo comporta”. Questa è l’etica della responsabilità prospettata da Jonas, un’etica su base metafisica, “basata, cioè, sulla convinzione dell’esistenza ontologica di un “valore assoluto” comprensibile intuitivamente, e sulla derivazione da esso dell’etica, insomma, sulla relazione “essere-dover essere” (p. 73).

Nell’ultimo capitolo, dedicato alle prospettive di pacificazione sociale, la riflessione si avvia a partire dalla convinzione del Novecento che l’uomo non sia semplicemente la somma di due sostanze quali corpo e spirito, ma che sia “una struttura unitaria di corporeità ed extracorporeità nella quale questi due fattori si fondono”. L’intento è quello di dimostrare come l’uomo, così determinato, sia dotato di una determinata moralità minima – “la percezione di bisogni e desideri essenziali, derivanti dalle peculiarità antropologiche, originanti una determinata distinzione tra bene e male, giusto e ingiusto, ed un conseguente comportamento” – che origina un’etica minima attraverso “l’attribuzione agli altri della nostra medesima sensibilità di base, del nostro stesso sentire di fondo, insomma, come una condivisione dello stesso patire” (p. 84). L’idea è quindi quella che l’essere umano disponga di “una moralità minima condivisa da tutti” che “rende l’etica universale”, o meglio universalizzabile in base agli “universalizzabili”, “quegli elementi condivisibili e condivisi da tutti gli uomini, per il solo fatto di essere uomini”. Questi devono essere minimi e la proposta avanzata qui è quella dell’universalizzabilità “della biologia e delle emozioni umane, intesi come imprescindibili componenti della costituzione antropologica essenziale”. L’antropologia viene pertanto pensata come “una via d’accesso privilegiata alla morale e all’etica, intese come il perseguimento del benessere psico-fisico personale e collettivo” (p. 84). Sollazzo intende estrarre una certa normatività “dalla ambigua ma unitaria costituzione antropologica umana” (p. 84). Perché puntare sulle emozioni? Esse hanno la capacità di fungere da “collante umano”, sono “un elemento di aggregazione umana attraverso la condivisione di un medesimo sentire. Infatti, le emozioni non solo consentono ad ogni singolo uomo di sentire qualcosa, di “patire”, ma permettono anche di proiettare tale patire sugli altri, trasformandolo in un patire con-, in un’immedesimazione che diviene partecipazione emotiva al destino di ciascun uomo” (p. 85). Ecco allora che, in tale prospettiva, “l’immaginazione letteraria” viene presentata, nella chiave di lettura che ne dà la Nussbaum, come “la migliore cura che si possa adottare per superare il male dell’utilitarismo che, oggi, si è trasformato in un complessivo criterio per la gestione sociale che, come scrive Amartya Sen, riduce le persone a “localizzazione delle loro rispettive utilità”” (p. 86). Non a caso lo stesso utilitarismo si difende dalla letteratura denunciandola come “un qualcosa di meramente ludico e/o superfluo” (p. 86). È necessario riabilitare la funzione pubblica della cultura e in particolar modo la sua espressione narrativa – a cui autori come Derrida e Ricoeur hanno dato la giusta rilevanza – affinché la “ragione su base emozionale” formi una società giusta. La biologia e le emozioni costituiscono, così scrive Sollazzo, “i pilastri della costituzione antropologica, chiarendone l’essenza, un’essenza che è indispensabile tenere a mente per prospettare una universale teoria della “giustezza”, ovvero, di ciò che per l’uomo è giusto.” (pp. 87-88). Il nostro autore descrive come per vincere le due forze, l’una contraria all’altra, con cui ci troviamo ad avere a che fare oggi, quella dell’omologazione e quella della differenziazione, occorra ripensare le relazioni umane in termini di relazioni tra persone e non tra civiltà o comunità: “assumendo le persone come vertice ottico, risulta evidente come esse siano al contempo diverse ed uguali fra loro. Le diversità originano dalla contingenza, ogni identità è infatti sempre un’identità contingente, non solo e non tanto nel senso di essere situata, quanto piuttosto nel senso di essere determinata sia da fattori indipendenti dalla volontà umana, sia da scelte compiute, costantemente, da ciascun uomo. L’uguaglianza risiede invece in quella già menzionata costituzione antropologica essenziale, che rappresenta una sorta di pattern universale, sopra il quale ciascuno dipinge la propria esistenza come vuole e come può” (p. 90). Si può pertanto applicare “un’etica universale” a “un sostrato antropologico comune”. Le differenze, la pluralità di formae mentis e culture “per non scadere in un logica di “ghetti contigui”, di “differenze blindate” senza porte né finestre, di «piccole isole, ciascuna fuori dalla portata intellettuale e normativa dell’altra» , devono essere costantemente aperte le une verso le altre (p. 90). La modalità di questa apertura passa attraverso il rispetto, il quale viene proposto da Sollazzo in sostituzione alla tolleranza, dopo aver mostrato i limiti insiti in quest’ultima, ed è un modo per relazionarsi all’altro, senza prescindere dal confronto e da una contaminazione reciproca di differenze per giungere a un “vivere insieme non nonostante, ma grazie alle differenze” (p. 90). La prospettiva è quella della “sintesi disgiuntiva”, “in cui proprio l’inassimilabilità delle singolarità costituisce il trait d’union fra le stesse, potendo il tutto avvenire sul terreno di una etica universale, antropologicamente fondata.”(p. 91).  L’ultimo punto preso in esame è quello della giustizia, fondamento dell’etica, messa in pratica dal diritto: “la politica si pone come il “filtro” tramite il quale avviene il passaggio dal piano etico-valoriale a quello pratico-istituzionale, ovvero, come un’infrastruttura necessaria per conquistare e mantenere il potere che, a sua volta, rappresenta il primario mezzo per la concretizzazione/istituzionalizzazione dei valori” (p. 91). Sollazzo evidenzia come oggi non essendo più i diritti umani annodati alla categoria della cittadinanza ed essendo pertanto scissi dall’appartenenza allo Stato, ma essendo conferiti all’uomo in quanto uomo, senza che egli necessiti di ulteriori specificazioni, la violazione dei diritti umani ha come suo vettore non lo Stato, ma la mancata comprensione della relazione tra diritti umani e bisogni umani. Si conclude con questa tesi un lavoro che ha espresso come suo obiettivo principale quello di richiamare l’attenzione su urgenti questioni etico-politiche all’interno di un inquadramento delle stesse nella prospettiva della costituzione di un’antropologia essenziale che ha nel suo essere minima la sua universalità necessitante.
INDICE
“Quando una crisi non è un’opportunità: la coincidenza con ciò che si vorrebbe superare”
Introduzione
I Sul totalitarismo
1.1 Per una prima definizione
1.2 Il totalitarismo come male prettamente politico
1.3 Capitalismo e totalitarismo
1.4 Crisi della capacità di giudizio e della ragione
1.5 Dal “sistema” all’Impero
II Sulla democrazia
2.1 Il modello democratico della pòleis
2.2 Le ragioni della società aperta
2.3 La difesa della democrazia dai suoi avversari interni ed esterni
III Etiche politiche
3.1 Riabilitazione della filosofia pratica ed “etica del discorso”
3.2 L’individualismo nelle teorizzazioni liberali
3.3 Il neocontrattualismo come strumento di giustizia sociale
3.4 Il comunitarismo come risposta alla crisi del soggetto morale ridotto ad io puntiforme
3.5 Le nuove (co)responsabilità del soggetto morale: Naturphilosophie ed “euristica della paura”
3.6 Per una nuova possibilità etica: l’apertura all’alterità
IV Prospettive di pacificazione sociale
4.1 La nuova immagine dell’uomo
4.2 All’origine di una moralità minima. Antropologia essenziale: biologia ed emozioni
4.3 Una etica minima
4.4 Giustizia e diritti umani
Bibliografia ragionata
Moira De Iaco (Lecce, 1985) è attualmente Cultrice della Materia (Storia della Filosofia Contemporanea) all’Università del Salento. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni presso l’Università di Bari con una tesi intitolata “Solipsismo e alterità. Wittgenstein e il mito dell’interiorità”, pubblicata da Pensa nel 2013. Si è laureata all’Università «La Sapienza» di Roma in Filosofia nel 2007 e in Filosofia e Studi teorico-critici nel 2009. Si occupa di Filosofia Contemporanea, Filosofia del Linguaggio, Estetica, indagando principalmente la filosofia wittgensteiniana.
(«Filosofia e nuovi sentieri», 14/02/2016)
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