venerdì 12 giugno 2015

L’eredità machiavelliana

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Introduzione

Quando si approccia un classico, abitualmente ci si dedica a rintracciarvi i motivi di attualità e/o di obsolescenza. Spesso questa prospettiva ne orienta le celebrazioni. A questo proposito il 2013 è stato un anno ricco, fra le principali ricorrenze: il 50esimo de La banalità del male di Hannah Arendt, il 100esimo della nascita di Albert Camus e, l’oggetto di queste pagine che si propongono però di trascendere il semplice momento celebrativo, il 500esimo della stesura de Il Principe di Niccolò Machiavelli(1)
A proposito di quest’ultimo, e a conferma di quanto si diceva all’inizio, Eric Weil(2) notò che nella presenza di Machiavelli nella nostra cultura si possono distinguere due momenti, che a volte si sovrappongono e a volte si susseguono l’un l’altro. Un momento in cui lo si studia con estremo rigore storico-filologico, ed un momento in cui si cerca in lui una possibile soluzione ai problemi del presente, ovvero, un momento che lo colloca nella distanza ed uno che lo pone nella presenza. In breve, attualità e/o obsolescenza.   
Ora, quello che vorrei proporre in questo breve scritto è di abbandonare queste due prospettive, ricalibrandole in una terza che le contenga entrambe e però le trascenda (una sorta di hegeliana sintesi), quella della “eredità”. L’eredità infatti dà conto della permanenza di un classico nella storia senza forzarlo, decontestualizzandolo ed appiattendolo sul presente. Diviene così evidente che la presunta eternità di un classico non risiede nella eterna validità alla lettera del suo contenuto, ma nel persistere, con forme e tempi sempre contingentati dalla storia, di una sua qualche forma di influenza. 
Per questo, mezzo millennio dopo la stesura de Il Principe, anziché parlare di attualità e/o obsolescenza dell’opera, cercherò di rintracciare il filo rosso dell’eredità che ci unisce ad essa, della quale solo nostra è la responsabilità di ciò che ne faremo. 
A proposito di tutto questo, mi sembrano illuminanti le parole di Mario Reale quando scrive:

non c’è attualità che non si costituisca entro la consapevolezza della distanza, niente dei classici è trasferibile immediatamente nella realtà di oggi. Il filo di connessione è piuttosto costituito da quella che direi “lezione”, ossia la  possibilità di ricavare liberamente dai classici temi e motivi che, in parte, vanno oltre il tempo e possono, più spesso in forma indiretta, farci da guida(3)

Ebbene, per far emergere questa lezione, questa eredità, ritengo sia utile muovere dalla contestualizzazione dell’opera per poi trascenderla osservando cosa, e come, vi è giunto fino ai giorni nostri, e che tuttavia non la rende attuale. La presunta attualità infatti si scioglie subito di fronte alla contestualizzazione storica e contenutistica. Storicamente, l’opera si colloca nel quadro delle vicende fiorentine rinascimentali. Machiavelli fin dal 1503 acquisisce incarichi sempre più prestigiosi nella repubblica fiorentina divenendo uomo di fiducia del gonfaloniere Piero Soderini. Nel Settembre del 1512 i Medici fanno ritorno a Firenze e a seguito di ciò egli perde il suo incarico. È da qui che deriva la realizzazione de Il Principe: per tutto il 1513 (e probabilmente anche per i primi mesi del 1514) Machiavelli è impegnato nella stesura di un’opera che possa riabilitarlo agli occhi dei Medici, mostrando loro la sua competenza politica, l’opera è infatti dedicata a Lorenzo de’ Medici. Una riabilitazione che avverrà tardi: solo nel 1520 infatti gli verranno affidati incarichi politici via via sempre più importanti; di pari passo, nel 1520 verrà rappresentata a Roma la Mandragola al cospetto di papa Leone x, Giovanni de’ Medici, nel 1521 sarà stampata a Firenze la sua Arte della guerra e gli verrà poi affidato l’incarico ufficiale della composizione delle Istorie fiorentine tramite il cardinale Giulio de’ Medici. Quando poi nel 1527 Firenze tornò ad essere una repubblica, con una nuova cacciata dei Medici, egli non solo perse ancora una volta la sua posizione ma gli amici repubblicani gli voltarono le spalle considerandolo un mediceo, proprio lui che fu sempre repubblicano(4); pochi giorni dopo morì. Contenutisticamente, i temi sono “tecnici”: pro e contro di principati ereditari, acquisiti o misti (spec. capp. I-III), se sia preferibile una milizia propria, ausiliaria o mercenaria (spec. capp. XII-XIV), sull’utilità delle fortezze (spec. cap. XX)(5). Insomma, ed ecco il motivo di questa mia breve sintesi, come sempre avviene, l’opera è del tutto figlia del suo tempo e del suo autore, ne deriva il venire meno di una qualsiasi presunta attualità.
Tale opera di contestualizzazione va fatta anche nei confronti della Critica. Per citare i contributi ormai “classici”: da Benedetto Croce ad Antonio Gramsci, da Georg Wilhelm Friedrich Hegel a Leo Strauss, da Isaiah Berlin a John Pocock ed a Quentin Skinner(6). Anche la Critica risponde infatti alle circostanze specifiche della sua produzione, in sintesi: storia, luogo e biografia dell’autore. Ma attenzione, questa operazione non è un mero esercizio accademico, ma un ragionamento indispensabile per comprendere il tipo di percorso che ci lega ad un classico: la sua eredità (l’autenticità della quale risiede nella sua originalità) e l’interazione (la contaminazione) di questa con le forme di pensiero che l’hanno traghettata sino a noi (e, evidentemente, anche con la nostra stessa presente forma di pensiero). E tale operazione è indispensabile da compiersi anche nei confronti di quella forma sui generis di Critica che è la vulgata

Con Machiavelli

Il dizionario Sabatini Coletti definisce la voce «machiavellico» come «spregiudicato e subdolo; falso e senza scrupoli»(7). L’opinione comune infatti ci consegna un Machiavelli cinico e demoniaco maestro del male. Ma questa lettura non deriva dal confronto con l’autenticità e l’originalità della pagina machiavelliana, bensì dal guardare al fiorentino attraverso la lente di un particolare filtro. Un filtro che, coscienti o meno che possiamo esserne, si è depositato nella nostra storia culturale e pre-orienta il nostro sguardo, anche nel caso in cui, nei nostri atteggiamenti quotidiani, lo si contesti. Tale filtro è la lettura religiosa, meglio, cattolica, meglio, gesuitica, della realtà(8). Una lettura dividente, nel senso che predispone alla divisione netta e radicale tra bene e male, e quindi ad individuare tali poli nella realtà, un principio di bontà ed un principio di malvagità, facendoli poi reagire tra di loro. Questa lettura ha reso Machiavelli digeribile ad un mondo che (indipendentemente dalla presenza in esso di ferventi credenti o di atei) procede in termini gesuitici. Che evidentemente non sono quelli machiavelliani. 
“Il fine giustifica i mezzi” è una frase del tutto assente dalle opere e dall’ordine concettuale machiavelliano. In Machiavelli infatti non vi è nessuna polarizzazione fra un principio buono (ruolo che dovrebbe giocare il fine) e uno cattivo (che si vorrebbe rappresentato dai mezzi). Ergo questa affermazione è al di fuori dell’orbita machiavelliana in tutti i sensi, anche quando la si vorrebbe “giustificare” identificando il fine con qualcosa di simile a ciò che oggi nominiamo come bene comune. In Machiavelli non c’è niente da giustificare, da scusare, da emendare. Il solo fatto che si avverta tale necessità significa che si sta leggendo Machiavelli attraverso occhi gesuitici, dunque non appartenenti a Machiavelli stesso, pertanto deformanti la prospettiva del pensatore fiorentino. 
Diversamente, per Machiavelli la politica è un’abilità finalizzata alla costruzione di un mondo stabile e libero. Questo rende Machiavelli, quello autentico, indisponibile verso qualsiasi fine di dominio, né in chiave politica né (come oggi a volte si assiste ad opera di una certa sottoletteratura del tipo “Machiavelli al tavolo da poker” o “Machiavelli per manager”) in chiave di management: la stabilità si accompagna sempre ad un regime di libertà. 
Oltre alla suddetta distorsione della complessiva prospettiva machiavelliana, vi sono poi altri possibili fraintendimenti sui quali vorrei brevemente richiamare l’attenzione.
Innanzitutto, Machiavelli non è uno scienziato politico. Per lui infatti la politica coincide con la vita e in quanto tale non è statica bensì dinamica, non è quindi rinchiudibile all’interno di ferree leggi causalistiche. Per questo ne Il Principe, quest’ultimo viene a volte descritto ricorrendo alla figura del centauro che dà conto sia dell’aspetto razionale che di quello emozionale, sempre presenti all’unisono nell’attività politica; che pertanto non è un’attività scientifica ma un’abilità: quella di comprendere e modellare, per quanto possibile, le contingenze. Per questo nella dedica dell’opera a Lorenzo de’ Medici, l’autore scrive di voler mettere a disposizione del mediceo non la sua scienza, ma la sua esperienza: «la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata con una lunga esperienza delle cose moderne, et una continua lezione delle antique».
Inoltre, Machiavelli non è neanche il padre della ragion di Stato (o della moderna sovranità). Questo onore/onere compete a Thomas Hobbes ma non al fiorentino, per il quale non deve esservi alcuna frattura tra una forma di ragione appartenente allo Stato ed una propria di altri soggetti, in primis il popolo. Ne Il Principe infatti invita più volte quest’ultimo a guardare il mondo attraverso gli occhi del popolo e il popolo attraverso quelli del principe, al fine di pervenire ad una prospettiva unitaria, ma non per questo statica (come testimonia il tema machiavelliano del conflitto)(9)
Fin qui, si è visto cosa Machiavelli, in generale, e Il Principe, in particolare, non contengono. Ma allora cosa contengono? In altre parole, cosa ci lasciano come eredità?
Per introdurre tale eredità vorrei utilizzare lo stesso vocabolario machiavelliano. In tal senso, alcuni termini chiave che ricorrono ne Il Principe (e non solo) sono quelli di “conflitto”, “fortuna”, “occasione” e “virtù”. Sono talmente noti che mi limiterò qui ad accennarli per vedere poi quale rilevante conseguenza se ne possa trarre a proposito della presunta attualità dello stesso Machiavelli. Il conflitto, inteso come quello fra gruppi sociali diversi, è quell’elemento essenziale al benessere dello Stato, poiché lo arricchisce con dinamiche sempre nuove (tra l’altro, qui risiede un’ulteriore enorme differenza rispetto ad Hobbes, per il quale il conflitto è sempre una minaccia e l’optimum è la quiete sociale, sotto forma di immobilismo, seppur imposta con la Legge e con la spada).  La fortuna è il fluire degli eventi, paragonato allo scorrere di un fiume; ad essa è dedicato il cap. XXV «Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum [Quanto possa la Fortuna nelle cose umane, et in che modo se li abbia a resistere]». La virtù è la capacità di indirizzamento della fortuna; se quella è un fiume, questa è la capacità di costruirvi argini. L’occasione è il tempo debito: il momento opportuno nel quale esercitare la virtù dentro la fortuna. Facendo interagire questi termini fra di loro, ne deriva che ciascun uomo vive all’interno di una fortuna che può parzialmente domare esercitando la virtù nell’occasione. La vita è un che di dinamico. Di conseguenza la conoscenza che di essa si può avere non sarà mai assoluta e universale (scienza) ma sempre parziale e contingente (esperienza), la conoscenza coincide con la comprensione delle circostanze in cui si vive, al di fuori delle quali, tale conoscenza (esperienza) perde qualsiasi validità. Insomma, nessuno è attuale al di fuori delle contingenze in cui vive, e poiché (pur stanti alcune analogie) le contingenze di oggi sono radicalmente diverse da quelle di mezzo millennio fa, Machiavelli stesso ci dice di non essere attuale.
Ma il termine più rilevante che si trova ne Il Principe è a mio parere non quello, pur fondamentale, di Stato, bensì quello di “verità effettuale”: «sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa» (cap. XV). È infatti questo il termine che dischiude, pur nell’assenza di un’attualità, l’eredità di Machiavelli: l’originalità di una certa prospettiva sul potere, assente precedentemente al suo discorso.
Precedentemente a Machiavelli infatti, le tematizzazioni inerenti al potere e alla vita associata in generale (dalla Repubblica di Platone, all’Etica Nicomechea di Aristotele, a tutta la produzione medievale di ispirazione cattolica) erano tutte calibrate attorno al riferimento ad un modello ideale universale, al quale la realtà concreta doveva ispirarsi riproducendolo, materializzandolo con la massima aderenza possibile. 
Machiavelli scardina questa prospettiva, che non risponde alla dinamicità della vita ingabbiandola anzi in utopie autoritarie. Il suo punto di partenza non è un modello utopico ideale a cui la vita dovrebbe sottomettersi, bensì la realtà effettuale: la conoscenza delle “cose particulari”, la presa d’atto del contingente. È infatti dalle e nelle circostanze effettive che il potere si pone in quanto tale. In altre parole, nessuna utopia precede la fondazione del potere, conseguentemente, ed è questo il punto dirimente, la presa del potere precede la sua legittimazione morale.

Oltre Machiavelli 
                
Ora, dall’ultima considerazione svolta derivano almeno due significative conseguenze, una più particolare ed una più generale, che si possono trarre dal discorso machiavelliano anche oltre i margini dello stesso, testimoniandone così l’eredità.
Nel particolare. La formula, il fine giustifica i mezzi, come si è già visto è del tutto estranea all’orizzonte concettuale machiavelliano. Se proprio volessimo esercitarci nel costruire una parafrasi che possa introdurre al discorso machiavelliano, propongo allora la seguente: “il fine produce i mezzi”, ma attenzione, nel senso che il potere dopo essersi posto costruisce la narrazione che lo legittima, proiettandola nel passato, ma producendola ex post facto.
Più in generale. Non si tratta qui di negare l’esistenza dei fatti, ma di essere consapevoli che c’è sempre un margine di interpretabilità, narrabilità, degli stessi e il modo in cui li narriamo produce un mondo in linea con quel certo tipo di interpretazione ed una interpretazione/narrazione avviene sempre dal presente del soggetto che la produce. Quindi, ogni ordine di potere, ed anche di significato, non è prodotto da una necessità che lo fonda ma produce esso stesso ex post le condizioni della propria necessità. Ne consegue che il compito che si prospetta a chi volesse comprendere la natura di un certo potere (ad iniziare, magari, da quello in cui ci si trova a vivere), non è quello di partire dalle sue presunte radici storiche ma, esattamente al contrario, quello di muovere dalla “effettualità” del potere stesso per poi ripercorrerne a ritroso il discorso fondativo e legittimante: invertire il senso di percorrenza della genealogia(10).
Se si compisse questa operazione si potrebbero dischiudere perlomeno due rilevanti prospettive. L’una sull’analisi del potere, l’altra su Il Principe.
Sul potere. Risalire a ritroso dallo stato delle cose, lo status quo, che nella sua immediatezza ci si pone di fronte, ad una sua possibile e realistica genealogia, potrebbe aprire a scenari scandalosi. Potrebbe infatti risultarne che poteri che pretendono di legittimarsi su “utopie angelicate” non siano altro che forme di vita più che dimidiata, e che situazioni comunemente tacciate di essere negative non siano invece altro che possibili forme di una realtà “effettuale” che possa ospitare una vita degna di essere vissuta.
Su Il Principe. Quest’ultima situazione qui descritta è quella in cui questa opera si deve collocare, come ho voluto qui sostenere, sottolineando il dato fondamentale di come il suo fine ultimo sia quello della costruzione di un ordine politico-sociale caratterizzato dagli elementi della stabilità (come emerge palesemente dall’ultimo cap., il XXVI) e della libertà (garantita dalla permanenza del conflitto); elementi, in particolar modo il secondo, che rendono l’opera inservibile per qualsiasi finalità dittatoriale, alla quale è stata e può essere asservita solo violandola. In conclusione, ne deriva allora che «[Il Principe] stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente»(11). Dunque, un Machiavelli ben diverso da quello che la vulgata gesuitica ci consegna e dalla quale dopo mezzo millennio sarebbe ormai ora di liberarlo.

***

1) La bibliografia, nazionale e internazionale, su Machiavelli è vastissima, per una rassegna dei contributi disponibili cfr. L. Cioffi, Bibliografia Machiavelliana (1987-2000), in Machiavelli nella cultura meridionale. Atti del Convegno: Napoli 27-28 novembre 1997, Archivio della Ragion di Stato, Napoli, Quaderno n. 2, pp. 275-298 (http://www.fedoa.unina.it/879/1/Machiavelli.pdf). È inoltre da segnalare che in occasione del Cinquecentenario della stesura de Il Principe è stata pubblicata da Einaudi un’edizione critica del medesimo curata da Giorgio Inglese e con un saggio di Federico Chabod, e che nel 2015 è prevista la pubblicazione di una Enciclopedia Machiavelliana diretta da Gennaro Sasso e composta da due voll. che offriranno una rassegna bibliografica della machiavellistica italiana e internazionale.
2) Cfr. E. Weil, Machiavel aujourd-hui, in Id., Essais et conférences II: Politique, Plon, Paris 1971, p. 189-217.
3) M. Reale, Sull’”attualità” politica del “Principe” di Machiavelli, in «MicroMega / Il rasoio di Occam», 01/02/2013: http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/01/31/sull%E2%80%99%E2%80%9Cattualita%E2%80%9D-politica-del-%E2%80%9Cprincipe%E2%80%9D-di-machiavelli/
4) Il persistere del suo repubblicanesimo è particolarmente evidente nei Discorsi, il cui inizio della stesura risale probabilmente al 1513, viene poi momentaneamente interrotta per dedicarsi a Il Principe, ed ultimata nel 1519. Cfr., N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, Roma, Salerno Ed., 2001.
5) Cfr., N. Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, con un saggio di F. Chabod, Torino, Einaudi, 2006.
6) Per i riferimenti principali relativi agli autori citati, cfr. I. Berlin, The Question of Machiavelli, in «The New York Review of Book», 04/11/1971, ristampato come L’originalità di Machiavelli, in Id., Controcorrente (1979(1), 2013(2)), Milano, Adelphi, 2000; B. Croce, Recensione a Il Principe, in «La Critica», 1924, pp. 313-315; A Gramsci, Noterelle sul Machiavelli, in Id., Quaderni dal carcere (1948), Torino, Einaudi, 1975, vol. III, quaderno 13 1932-1934, pp. 1553-1652, ristampato insieme ad altri scritti in Id., Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno (1949), Roma, Editori Riuniti, 1996, G.W.F. Hegel, La Costituzione della Germania (1802-03), in Id., Scritti politici, Torino, Einaudi, 1972, pp. 101-108, sul quale cfr. anche U. Dotti, Il “Principe” di Machiavelli e l’Italia di G.W.F. Hegel, in N. Machiavelli, Il Principe con uno scritto di G.W.F. Hegel, a cura di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 2004; J. Pocock (1975), Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, Bologna, Il Mulino, 1980, Id., Studi su Machiavelli pensatore, in «Journal of the History of Philosophy», n. 18, 1980, pp. 349-351; Q. Skinner (1981), Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1999, Id., Machiavelli’s Political Morality, in «European Review», n. 6, 1998, pp. 321-325 e Id., Machiavelli’s Discorsi and the Pre-Humanist Origins of Republican Ideas, in Id. et al. (eds.), Machiavelli and Republicanism, Cambridge, Cambridge U.P., 1990, pp. 121-141; L. Strauss (1953), Diritto naturale e storia, Genova, il melangolo, 2009 e Id.(1958), Pensieri su Machiavelli, Milano, Giuffré, 1970.  
7) Cfr. V. Coletti, F. Sabatini, Il Sabatini-Coletti: dizionario della lingua italiana, Milano, Rizzoli, 2008 (http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/). 
8) Cfr. G. Miligi, G. Montalbano, G. Perazzoli (cura), Politica e conflitto in Machiavelli. Intervista a Gennaro Sasso, in «MicroMega / Il rasoio di Occam», 03/04/2013: http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/04/03/politica-e-conflitto-in-machiavelli-intervista-a-gennaro-sasso/ C. Ocone, Ser Niccolò l’anticristiano, intervista a Gennaro Sasso, in «Reset», 14/05/2013: http://www.reset.it/dossier/la-modernita-di-machiavelli G. Sasso, Considerazioni su Machiavelli e sulla decisione morale, in «Filosofia Italiana», Marzo 2013: http://www.filosofia-italiana.net/wp-content/uploads/2013/04/Gennaro_Sasso_Considerazioni_su_Machiavelli_e_sulla_decisione_morale.pdf R. Vitelli, I gesuiti interpreti di Machiavelli, in «RMF», 23/11/2012: http://www.rmfonline.it/?p=8746
9) Cfr. G. Marramao, Oui, je suis Machiavelli, in «l’Unità», 23/05/2001 (http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/010523d.htm), Id., Dialogo con Giacomo Marramao, conduzione di P. Del Soldà, in «Radio3», 02/02/2013 (http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-259974a9-77ed-4957-84a8-45850cb5539f.html) e Id., Giacomo Marramao incontra Machiavelli, Milano, Bompiani, 2010. Se pertanto volessimo istituire dei parallelismi, la prospettiva de Il Principe presenta delle analogie non con quella del Leviatano ma con quella del Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau. 
10) Questo pone un evidente quanto affascinante parallelismo con Michel Foucault, con le sue ricerche sul rapporto tra il passato e il presente, tra la storia e la politica; e naturalmente anche con Friedrich Nietzsche (uno degli autori maggiormente letti da Foucault). Foucault infatti, più che essere indirizzato ad individuare l’origine (Ursprung) dei concetti di Stato, potere, diritto, si mostra interessato a ricostruire le condizioni della loro provenienza (Herkunft) e della loro emergenza (Enststehung): per lui la genealogia non sarà mai «partire alla ricerca della loro origine […], al contrario sarà attardarsi nelle minuzie e negli imprevisti degli inizi», M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in «Il Verri», n. 39/40, 1972, p. 87. Evidente qui l’influenza della genealogia nietzscheana che pone la questione non di «quale origine abbia propriamente il nostro bene e il nostro male [bensì] in quali  condizioni l’uomo è andato inventando quei giudizi di valore: buono e cattivo? E quale valore hanno in se stessi?» F. Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 1996, p. 5. Per i riferimenti principali in tal senso, oltre ai già citati, cfr. M. Foucault, L’intellettuale e i poteri (1981), in Id., Discipline, Poteri, Verità. Detti e scritti 1970-1984, Genova-Milano, Marietti, 2008, Id., Bisogna difendere la società (1975-76), Milano, Feltrinelli, 2009, Id., Il soggetto e il potere (1982), in H.L. Dreyfus - P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Firenze 1989, Id., No al sesso re (1977), in Id., Dalle torture alle celle, Cosenza, Lerici, 1979, Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975) , Torino, Einaudi, 1976. Per indicare ulteriori direzioni del discorso, mi sia permesso qui di menzionare solo altre due citazioni. «Il divenire non è della storia; la storia designa solo l’insieme delle condizioni, per recenti che siano, a partire da cui si devia per “divenire”, per creare cioè qualcosa di nuovo», G. Deleuze, Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 225. «[Il presente] ci precede ma continua malgrado tutto ad attraversarci [l’attualità] si produce, al contrario, come una rottura della griglia epistemica alla quale apparteniamo e della periodizzazione che essa ingenera», J. Revel, Le vocabulaire de Foucault, Paris, Ellipses, 2002, trad. mia. 
11) A Gramsci, Noterelle sul Machiavelli, cit., p. 1618.

(«Critica liberale», n. 216, 2013)

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