martedì 1 luglio 2014

J. H. Mackay, "Max Stirner"

di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com)

Non è forse esagerato dire che ci sono tanti “anarchismi” quanti anarchici: perché in fondo l’anarchia è il rifiuto di qualsiasi “etichetta” che venga impressa dal di fuori dunque dal di sopra, è il rifiuto dell’idea per cui sia possibile fare di tutta l’erba un fascio, di tante singolarità un qualche “-ismo”. Certo, è per esempio possibile parlare di un anarchismo a sfondo maggiormente “sociale”, particolarmente vivo in Italia, in cui la solidarietà e la condivisione sono valori altrettanto profondi della libertà, o di un anarchismo dal taglio più spiccatamente “individualista” e in senso “economico”, particolarmente accentuato negli Stati Uniti d’America, in cui il rifiuto dell’invadenza del potere politico fa tutt’uno con l’affermazione della libertà di iniziativa imprenditoriale. Simili esempi potrebbero facilmente essere moltiplicati, ma segnalano a loro volta la difficoltà – se non l’impossibilità – di incasellare l’anarchismo in una categoria univoca, sia rispetto agli individui anarchici che ai tipi di anarchia. Per questo gli anarchici – in tutte le loro forme – sono stati, sono e saranno i più invisi al potere – in tutte le sue forme.
Insomma, il centro propulsore dell’anarchia sta forse proprio nel rifiuto di qualsiasi “in nome di” superiore e predeterminato, come Stirner ha affermato con tanta forza e radicalità. Anzi, come ha vissuto con forza e radicalità.
Qui sta il grandissimo pregio delle pagine incalzanti e vigorose di Mackay e con ciò il merito della traduttrice e dell’editore italiani: mostrare che L’unico di Stirner non è soltanto un libro unico, in fondo anche perché l’unico libro davvero scritto da Stirner, ma la testimonianza di una vita. Di una vita unica, verrebbe da dire. L’unico è quasi una biografia, profetica nella misura in cui mette al centro quel nulla su cui Stirner fonda la propria causa e al quale resta così sempre esposto, sino al rischio di precipitarvi, come in effetti accadrà e come Mackay ricostruisce nel proprio testo, figlio di appassionate e costanti ricerche, che conservano ancora oggi intatta la loro importanza. La loro unicità.
Ho visto persone a cui L’unico ha sconvolto la vita, la cui esistenza è stata davvero trasformata, persino in modo “sproporzionato”: persone che sono arrivate a fare di un libro unico addirittura l’unico libro mai davvero letto, rendendolo così Libro Unico. Come, d’altro canto, Machay aveva persino vaticinato:

il libro immortale di Stirner eguaglierà soltanto quello della Bibbia in quanto a importanza. Così come questo libro “sacro” sta all’inizio del calendario cristiano e avrà i suoi effetti devastanti per due millenni quasi fino all’ultimo angolo della Terra abitata dagli uomini, questo egoista cosciente di sé e non sacro, sta all’ingresso della nuova era, all’insegna della quale viviamo, per esercitare un’influenza, altrettanto benefica, quanto è stata deleteria quella del “libro dei libri”.

Simile enfasi ha portato alcuni a parlare di Mackay come del primo “evangelista” stirneriano (K. Joël) e della sua opera come costellata di esaltazione persino pomposa e patetica, ai limiti del culto sprovveduto e ridicolo (R. Calasso). Giudizi ingenerosi, non tanto perché imprecisi rispetto al punto mirato, quanto piuttosto perché fuori mira rispetto al punto da focalizzare.
Se l’energia di Mackay e degli “adepti” stirneriani da un lato contraddice certo l’intero senso dell’opera e della vita di Stirner, dall’altro lato ne rivela nondimeno l’irruenza delle idee, la capacità di attrazione e ridestamento che colpisce soprattutto chi aveva davvero vissuto di certi ideali di “divinità” e “umanità”, chi era davvero stato educato in riferimento a certi “valori”. Coloro, soprattutto, che sino a qualche anno fa potevano ancora essere chiamati “borghesi”.
Parrebbe quasi da questo punto di vista che le pagine stirneriane, riempite di ulteriore colore e sostanza da quelle di Mackay, serbino un tratto anacronistico, come se l’opera di Stirner avesse esaurito la propria carica propulsiva nel ’68, culmine di un movimento di idee e pratiche che aveva come perno la messa in discussione di qualsiasi autorità “paternalistica”, di qualsiasi “in nome di” che pretendesse di esaurire la ricchezza dell’unicità nella chiarezza dell’univocità. A ben vedere, però, a uscirne vittorioso non è stato affatto l’Unico.
Voglio dire che la società che aveva davanti agli occhi Stirner e al cui interno prende forma l’Unico era caratterizzata dal nesso produzione-scambio-utilizzo, mentre la società in cui ci muoviamo, figlia anche se non soprattutto del ’68 (penso in particolare alle analisi di Boltanski-Chiapello e Preve), si basa su quello commercio-finanza-consumo: la prima ruota attorno alla soggettività del bisogno limitato, mentre la seconda all’impersonalità del desiderio illimitato. A dire: quello di Stirner era un anarchismo dei bisogni, quello contemporaneo è un anarchismo del consumo. Quello di Stirner era l’anarchismo della misuratezza, insieme pacata ma risoluta (la stessa pacatezza e risolutezza che ritroviamo nello stile di vita stirneriano); quello contemporaneo è un anarchismo della smisuratezza, insieme irrequieta e indecisa. O anche: quello di Stirner era l’anarchismo di chi fonda la propria causa sul nulla per costruire la propria unicità; quello contemporaneo è l’anarchismo di chi affonda nel nulla senza giungere ad affermare la propria unicità.
L’unico stirneriano – insisto – era un individuo che mirava all’autarchia, all’autosufficienza e all’indipendenza anche e soprattutto in senso produttivo: un individuo né indolente né pigro ma sempre pronto a “lavorare per vivere”, dallo stile di vita sobrio e modesto, capace di darsi una misura da sé senza che sia nessuno a imporgliela. Tratti con cui Mackay non a caso dipinge la vita e i comportamenti di Stirner, un unico capace di iniziativa, anche in senso economico (un esempio su tutti: il tentativo di aprire una latteria). L’unico contemporaneo è invece un individuo rapito da una costitutiva insufficienza, che si traduce in consumo solipsistico, la cui soddisfazione al contempo però dipende radicalmente da altri: un individuo indifferente, persino a tratti apatico se non preso dai rimbalzi euforia-depressione.
Certo, questa rappresentazione fa leva su una schematizzazione eccessiva se non ingenerosa, soprattutto perché c’è chi non ha mai smesso di fare dell’anarchia una cosa seria e non un esercizio di finta ribellione (da Deleuze a Graeber in senso teorico, passando per la pulsante esistenza di migliaia di unici); eppure consente di capire bene in che senso l’opera e la vita di Stirner non rappresentano un semplice invito alla rivolta fine a se stessa o ancora meno un richiamo a farsi i fatti propri. Rappresentano un ben più penetrante invito alla libertà, un pungolo alla libertà, alla non sottomissione a qualsivoglia potere “sacrale”.
Se c’è un motivo per cui, come ci ricorda Mackay in un anno significativo come il 1914, Stirner è stato davvero un «grande annientatore» di quella retorica che porta i popoli «alla morte e all’alienazione» in quanto «più acerrima nemica della vita», questo va proprio individuato nella forza con cui ha denunciato l’inganno di ogni forma di “in nome di” che pretendesse di dare norma e forma dall’esterno alla potenza individuale. Stirner ha cioè indicato con insuperata chiarezza che “il nemico” non è tanto lo Stato, bensì la struttura stessa di qualsiasi sistema “padronale” e “sacrale”, di qualsiasi «idea fissa» che porta con sé la codifica di un “peccato originale” da espiare per adeguarsi alla santità e liberarsi dell’imperfezione. Tutto ciò indipendentemente dalle svariate forme di cristallizzazione assunte da tale meccanismo, come il potere politico, la moralità, l’ideale di umanità, ma anche – come oggi ben vediamo o dovremmo vedere – l’efficienza del mercato, il denaro-merce e via di seguito.
Con una formula splendida su cui insiste Machay, Stirner ha esplicitato con lucida rudezza che «siamo diventati atei, ma siamo rimasti “persone devote”».
Non c’è dubbio che la radicalità di Stirner sia totale ed esuberante, tanto da parere eccessiva, come la sua complessa fortuna d’altronde testimonia: verrebbe da dire che come è andato a fondo con la comprensione e la denuncia, così è andato a fondo nella propria vita, anche per via di quella riservatezza e persino solitudine, mancanza di bisogni e compostezza, assenza di passioni e imperturbabilità che lo contraddistinguevano. E che Machay descrive e restituisce così vividamente, arrivando per esempio a ricordare che

poiché aveva fondato la sua causa sul nulla, non ha mai legato il suo cuore a qualcosa che avrebbe potuto distruggere la sua vita o gliela avesse anche soltanto potuta stressare fino all’insopportabile: né a un essere umano, né alle piccole cose della vita quotidiana. E se non ha direttamente reso felice nessuno, non lo ha però neanche, e meno che mai di proposito, reso infelice.

Si potrebbe, in altre parole, pensare che tanta coerenza intellettuale ed esistenziale abbia portato a una liberazione «dalle catene degli uomini» così profonda da desiderare la recisione di ogni forma di legame sincero e profondo, da ogni forma – come si usa dire nel lessico filosofico contemporaneo – di munus. Come se Stirner desiderasse insomma immunizzarsi dagli altri a prescindere, come se la passione fondamentale dell’imperturbabile Unico fosse la tristezza, o addirittura il timido, silenzioso e autistico ripiegamento su di sé. «Vive nell’uomo tutto ciò che vive nella sua opera: l’incrollabile conoscenza di ciò che tiene in vita – la conoscenza dell’autodifesa!». Sembrerebbe così che, a conti fatti, Stirner scrivesse e vivesse sulla difensiva, cercando di liberarsi di ogni forma di debitorietà nei confronti degli altri. Si potrebbe persino arrivare a dire che l’imprigionamento per debiti e la dimenticanza cui è andato incontro non hanno rappresentato altro che il conto estremo da pagare per chi conti non voleva nemmeno aprirne («ci ha soltanto ricordato che siamo in debito con noi stessi!»).
Eppure
Eppure, l’autodifesa dipende da un attacco in corso, la radicalità dipende dal coraggio di annunciare con forza qualcosa che non è stato sinora visto o non si era avuto il coraggio di rivelare con tanta fermezza, la timidezza e non aggressività dipendono dal bisogno di sottrarsi alla logica di sopraffazione e competizione che ormai ben conosciamo o dovremmo conoscere, l’apparente richiusura su di sé dipende dall’imperativo a «non cercare la salvezza al di fuori e al di là di se stessi». È ormai banale affermare che si è di fronte a qualcuno che mette in discussione ogni idolo, che smaschera ogni menzogna, che fa scricchiolare ogni solida certezza precostituita, che non si ferma davanti a nulla per perseguire coerentemente la verità: ma Stirner è davvero tutto questo. Anzi, è forse (anche) grazie a lui che tutto ciò appare come banale, è forse lui il vero Socrate dell’età moderna. Il che non significa, certo, che sia come Socrate, che le due unicità possano in qualche modo combaciare; significa piuttosto che Socrate sta al mondo antico come Stirner a quello moderno: esercita una funzione di costante scossa dal torpore. Stirner ancor prima e ancor più di Nietzsche, dunque – come lo stesso Nietzsche d’altronde ben sapeva.
Eppure, ancora, abbiamo davvero molto da imparare anche dal modo travolgente in cui Stirner ha messo davanti agli occhi il ruolo che il debito, il munus, gioca nelle nostre esistenze. Se la politica per come la intendiamo comunemente nasce nel momento in cui Solone rende impossibile la schiavitù individuale per debiti, la posta in palio politica nel tentativo – sinora per larghi versi scellerato – di costruire una Unione Europea è il suo analogo a livello collettivo-nazionale, vale a dire impedire la schiavitù per debiti di interi popoli. Certo, da una parte la lezione stirneriana consente di riconoscere che questa “idea di Europa” rappresenta il nuovo feticcio, la nuova “sacertà” in nome della quale gli unici vengono piegati dal giogo dell’univocità; dall’altra parte la lezione stirneriana vale però anche rispetto al riconoscimento del bisogno di sottrarsi a un legame che ha la forma di una catena, alla nuova forma di “sovranità” – quella del debito.
Ancora una volta, insomma, non basta essere atei per cessare di essere devoti, ed è forse questo il maggior lascito dell’immortale Johann Caspar Schmidt. Immortale perché, come Mackay ha voluto testimoniarci con formidabile acume, «immortali sono non i forti clamori quotidiani, i beniamini della folla, bensì i ricercatori solitari e instancabili, che, lavorando in silenzio, indicano le vie al destino dell’umanità».
Ma l’immortalità è tale solo se attivamente tramandata: per questo, in conclusione, questa traduzione della sferzante opera di Mackay va accolta con attenzione e partecipazione.

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