lunedì 14 aprile 2014

Il vero collante del nuovo fascismo: la disoccupazione

di Pietro Piro (sekiso@libero.it)

Un importante articolo del presidente dell’ANPI, il Prof. Carlo Smuraglia, apparso sull’Unità sabato 29 marzo 2014 a p.8, intitolato: «Antieuropeismo, collante di nuovi fascismi», riporta quest’affermazione del giuslavorista: «Vediamo processi di possibile saldatura tra formazioni di derivazione dichiaratamente neonazista, neofascista e altre forze e movimenti con connotazioni più o meno razziste e xenofobe, basate sull’odio del diverso. Questa possibile saldatura attraverso un collante potenzialmente unificante che è l’antieuropeismo può essere detonante e deve imporre una risposta articolata, anche di tipo normativo». 
In parte, la diagnosi è corretta. L’antieuropeismo è certamente un fattore di aggregazione ideale e un riferimento “culturale”. Tuttavia, a nostro avviso, si tratta di un’idea molto generica e anche un po’ troppo complessa perché faccia da collante per un movimento che ha come base emozionale rabbia, frustrazione, assenza di prospettive, nichilismo diffuso, che con sfumature molto diverse  e necessariamente significative  denominiamo “nuovo fascismo”. 
Noi riteniamo – cercando di fare tesoro della lezione del passato – che la disoccupazione sia la causa principale del riemergere di certi fenomeni che credevamo superati. Stiamo lasciando a casa troppe persone e troppi giovani in particolare, facendo in modo che si crei un vero e proprio “esercito dello scontento”. Questo esercito di avviliti, incattiviti, depressi, amareggiati, potrebbe essere indirizzato nella direzione della violenza? Nella direzione di una tanto irrazionale quanto morbosa caccia all’uomo? Potrebbero questi marginali, questi esclusi dalla vita sociale, giungere al desiderio di aggredire il corpo sociale che li tiene nell’ombra?
Lo storico tedesco Joachim Fest per rispondere alla domanda sul perché la politica nazista abbia avuto una così grande forza d’attrazione sugli intellettuali scrisse: «Va ricordata innanzitutto la mancanza di prospettive professionali che, a causa della guerra e delle vicende post-belliche, numerosi laureati si trovarono ad affrontare, tanto che la politica divenne il mestiere dei disoccupati. […] Ora i nuovi raggruppamenti politici che emergevano dal caos offrirono a ogni attivista risoluto, fantasioso e spregiudicato impensate possibilità di successo» (J. Fest, La natura precaria della libertà. Elogio della borghesia, Garzanti, Milano 2010, p. 99). La nostra condizione sociale è immune da questo tipo di dinamiche? 
Proviamo ad abbozzare un breve ragionamento. C’è in questo momento nel nostro Paese una massa di disoccupati che sopravvive grazie ai risparmi accumulati dalle generazioni precedenti e agli scarsi residui di welfare state. Le disuguaglianze sono sempre più marcate e il divario tra ricchi e poveri si fa sempre più netto. L’assenza di prospettiva crea masse sempre più inquiete. Depressione e suicidio sono forme di reazione distruttiva rivolte verso se stessi. Il movimento dei lavoratori e i sindacati in particolare sono accusati continuamente di essere un “freno allo sviluppo” perché rivendicando il minimo dei diritti sindacali frenano gli investimenti. Il lavoratore è sempre più solo, atipico, precario. 
Bisogna essere dei geni della psicologia per comprendere che la massa di lavoratori annientata dalla legge del libero mercato e da una società sempre più disumana rappresenta un potenziale esplosivo? 
In un’intervista rilasciata per il museo del nazismo di Norimberga (Dokumentationszentrum Reichsparteitagsgelände) un’anziana signora ricordava come la disoccupazione e l’assenza di prospettive professionali e di vita caratterizzasse la gioventù della Germania del suo tempo. Ricordava come si passassero intere giornate a fumare in dieci una sola sigaretta. La signora ricordava come l’avvento delle divise naziste rappresentò per molti giovani di quella generazione una liberazione dalla quotidianità e una possibilità di evasione. La forza antiquotidiana di una politica ritualizzata e violenta attraeva perché trovava una massa di disperati che era disposta a tutto pur di spezzare il tedio di una vita inattiva e socialmente insignificante.
Nella storia nulla si ripete mai identicamente al passato. È vero anche però, che non possiamo escludere che ondate di violenza anche peggiori di quelle avvenute nel passato, possono nuovamente manifestarsi. Noi riteniamo che oggi si stiano creando le basi sociali per l’esplodere di una nuova ondata di violenza che non necessariamente sarà politica. 
Smuraglia scrive: «C’è molta indifferenza tanto nelle istituzioni quanto nella scuola, dove è sparita l’educazione civica, dove non si insegna la Costituzione e non si insegna la cultura democratica». Questo vuoto pedagogico è sotto gli occhi di tutti e deve essere colmato. Ma dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti il fatto che una Repubblica “fondata sul lavoro” perde inesorabilmente di senso quando il lavoro diventa una prerogativa di una ristretta élite mentre la massa è schiacciata da una disoccupazione sempre più diffusa.
La fascinazione del fascismo si combatte con il lavoro e attraverso una cultura del lavoro. Non a caso, la nostra Costituzione  nata dalla lotta partigiana contro il fascismo – pone il lavoro al centro del processo di costruzione dell’identità dell’individuo.
Difendere la Costituzione, combattere il nuovo fascismo, tutelare e promuovere il lavoro sono sforzi che vanno tutti nella stessa direzione.
Bologna 
31/03/2014

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