sabato 29 marzo 2014

L’era della mediocrità

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

La cultura sta morendo? Questa preoccupante domanda capita di sentirla formulare in orazioni più o meno esplicite durante convegni, dibattiti, trasmissioni radiofoniche, interviste e così via. Ovviamente la cultura non sta morendo, basti pensare solo al fatto che tutti noi continuiamo a utilizzare la nostra lingua. E se la cultura fosse morta non ci sarebbero più parlanti. Tuttavia, se la domanda si pone ormai da diversi anni e non trova una risposta, vuol dire che qualcosa di importante è accaduto e questo qualcosa ha un effetto catastrofico tanto da ricorrere all’immagine della morte.
Prima di individuare le cause della catastrofe e capire cosa ha lasciato al suo passaggio è necessario indicare anche solo sommariamente le basi materiali su cui si è edificato l’immaginario culturale del nostro recente passato. Quello ricordato con una punta di nostalgia da anziani, da uomini e donne di mezza età e che va dagli anni ’50 agli anni ’70 del secolo scorso. Un battito di ciglia dal punto di vista della storia, un abisso per un giovane di oggi.
In quel passato l’espressione artistica e la lotta politica formavano un sodalizio che produceva l’intellettuale impegnato tra i cui compiti c’era quello di scandalizzare la borghesia benpensante. Non solo: gli stessi partiti politici avevano una precisa idea di società e un progetto da realizzare. Per non andare troppo indietro nel tempo si pensi agli scritti di Enrico Berlinguer, di Aldo Moro e dei leader di gruppi e movimenti extraparlamentari. Accanto ai partiti di massa (o aspiranti tali) si affermavano poi istituzioni quali la scuola e l’università. Che non solo si radicavano nella società ma proliferavano con la moltiplicazione di discipline, cattedre, istituti, dipartimenti e così via. Conseguenza: il professore di scuola media e delle superiori godeva di un forte prestigio sociale, che diventava fortissimo per il docente universitario. Altra conseguenza: il libro costituiva un oggetto circondato da un’aura quasi sacrale. Era grazie a questo mezzo di comunicazione che il sapere veniva trasmesso e gli scrittori guerreggiavano tra loro rafforzando simbolicamente il ruolo sociale dello studente e dell’autore.
A costruire l’immaginario di una cultura come motore della civiltà e opportunità di emancipazione per i ceti popolari ha contribuito il mercato editoriale. Negli anni ’60  e  ’70 del secolo scorso le case editrici nascevano come funghi, andavano a caccia di talenti e scommettevano sulle novità. Le major dell’editoria nazionale fiutata l’euforia del mercato si adeguavano producendo collane memorabili: per tutte ricordiamo il “Nuovo Politecnico” dell’Einaudi. Sempre in quei due decenni alcune discipline godevano di altissima reputazione. Ad esempio: la vecchia filosofia, la giovane sociologia e la ancor più giovane antropologia culturale. Tutte e tre, si badi bene, erano vissute come strumenti per il cambiamento del mondo. La cultura espressa da queste branche del sapere si presentava come una leva per spingere all’azione (politica e non). La millenaria filosofia con le sue idee sulla società giusta, la rampante sociologia con le sue verifiche sulla disuguaglianza, e l’ultima arrivata, l’antropologia culturale, con le sue indagini sui nostri modelli interpretativi dell’Altro diventavano armi intellettuali di cui tutti in qualche maniera si appropriavano orientando un senso comune che, ad esempio, si esprimeva con cantautori impegnati come Giorgio Gaber, Francesco Guccini, Fabrizio De Andrè solo per citare alcuni nomi. Insomma, tra gli anni ’50  e gli anni ’70 del Novecento ha raggiunto la sua massima espansione una koinè culturale fondata sull’idea di progresso, di critica del presente e di emancipazione sociale. Ed è su questo terreno che le organizzazioni sindacali da un lato e il femminismo dall’altro hanno dato luogo a un’intensa produzione di libri e riviste, ricerche e riflessioni sul lavoro, il movimento operaio, i movimenti delle donne. L'ultima architrave degli anni ruggenti della cultura è data dall’espansione del welfare state. Il quale non solo ha finanziato direttamente o indirettamente tante delle iniziative e delle istituzioni di cui abbiamo fatto cenno, ma ha creato un clima, appunto culturale, per cui era considerato automatico che all’aumento di solidarietà sociale corrispondesse un miglioramento della qualità della vita di tutti.
A partire dagli anni ’80 iniziano a sgretolarsi le basi di un immaginario che viveva la cultura come un’esperienza viva, un’esperienza che metteva in discussione molti aspetti della vita quotidiana in vista di una società più giusta. Come noto la spinta propulsiva alla “rivoluzione conservatrice” è stata data dalle politiche di Ronald Reagan negli Usa e da quelle di Margaret Thatcher in Inghilterra. Il resto della storia è ancora più noto: in Europa il socialismo reale collassa, gli Stati Uniti vincono la guerra fredda e il liberismo si impone su scala mondiale. Di quel mondo, il mondo della cultura intesa come mezzo per la trasformazione della propria vita e della società oggi non resta quasi più nulla. Ed è per questo motivo che si sente parlare di morte della cultura. In senso lato effettivamente una cultura è davvero in via di estinzione. Le cause politiche le abbiamo appena accennate. La conseguenza forse più importante di tali cause è che dagli anni ’80 ad oggi il capitale ha stabilito la propria egemonia sul lavoro. Ed è a partire da questo progressivo squilibrio di rapporti di forza tra classi sociali che ad una ad una sono attaccate, demolite e trasformate le basi che sorreggevano i codici culturali del Novecento.
Tuttavia la messa in crisi del lavoro salariato e a tempo indeterminato, così come l’implacabile demolizione del welfare state imposta dal neoliberismo non bastano a elaborare il lutto di una cultura che non c’è più.  Ad essa si è sostituita un’altra visione del mondo. Una visione che non molto tempo fa ha fatto affermare a Giulio Tremonti, allora importante ministro della Repubblica, che con la cultura non si mangia, e più recentemente al presidente Barack Obama che è meglio lavorare in fabbrica anziché prendere una laurea in storia dell’arte (Obama si è poi scusato per la sua affermazione, il nostro ministro no). Come si è giunti a questo rovesciamento di senso in tempi tutto sommato così rapidi? Attraverso il crollo più o meno rovinoso delle colonne che sorreggevano il precedente immaginario. Un immaginario in cui la cultura è precondizione all’agire collettivo indipendentemente da qualsiasi appartenenza. Ed ecco una ad una le colonne che crollano.
L’arte si è separata dai movimenti politici antisistema. I partiti politici sono fagocitati dall’economia e non ipotizzano più un progetto sociale (non fanno più sognare). La scuola pubblica è il primo bersaglio da colpire quando i governi decidono di ridurre la spesa. La piccola editoria muore mentre le major hanno fatto del libro una merce come le altre. Il libro stesso, con la diffusione dei media elettronici e l’avvento di Internet, ha perduto il suo privilegio di strumento principe per la trasmissione del sapere. La filosofia, la sociologia  e l’antropologia culturale si sono trasformate in discipline per addetti ai lavori, discipline incapaci di parlare a un vasto pubblico, meglio, a un pubblico concorrenziale rispetto a quello della Tv; i cantautori impegnati invece non ci sono più e se ci sono si ritrovano frullati nella più che abbondante offerta di musica pop. Il sindacato è sulla difensiva a causa della diffusione del precariato, delle delocalizzazioni e del potere assunto dall’economia finanziaria, mentre il femminismo è quasi scomparso dal nostro habitat culturale. In quanto al nostro arretrato welfare state è sottoposto da vent’anni a continue cure dimagranti tanto che la maggioranza dei pensionati italiani percepisce oggi un reddito di circa 500 euro al mese. E gli intellettuali impegnati? Definitivamente scomparsi. E con loro è finita la guerra dei libri.
Tutti questi crolli dell’immaginario novecentesco hanno aperto il passaggio a un inedito immaginario fondato sul consumo, sulla mercificazione e la spettacolarizzazione di ogni cosa. Tuttavia, nonostante il passaggio d’epoca, ci ritroviamo oggi senza un’idea del futuro, anzi, peggio ancora, ci ritroviamo ad aver paura del domani. Per di più il mondo attorno a noi è sempre più complesso e incomprensibile. Ma quel che è peggio è che le parole hanno perso valore. In una società dello spettacolo ogni libro che esce è un capolavoro, ogni film meriterebbe l’Oscar, ogni canzone è indimenticabile, ogni performance artistica imperdibile e così via. Paradossalmente è vero anche il contrario: il prodotto culturale di alto profilo viene rapidamente dimenticato. E’ la sindrome del successo. E siccome per arrivare al successo ci sono dei costi da sostenere molta produzione culturale si trova incanalata nelle strategie del marketing. Strategie per le quali il consumo viene prima della cultura. Sicuramente si tratta di un modo per fare profitti, ma in alcuni settori ha condotto a una evidente crisi della creatività. Prendiamo l’industria dei best seller. Sforna libri pianificati a tavolino, magari con un sapiente mix di generi letterari, per un prodotto vendibile a livello planetario. Ciò implica una preoccupante uniformità di stile che si insinua nel circuito della cultura di massa. Basti pensare ai romanzi di Stephen King che, con la supervisione dello stesso autore, si trasformano ipso facto in serie televisive. O alle saghe cinematografiche: sempre più prevedibili con la loro teoria di prequel e sequel. O ai remake, sempre del grande schermo, basati su originali poco conosciuti, se non addirittura sconosciuti, a un pubblico privo di memoria.
Da questi processi viene fuori che in una società incredibilmente frammentata come la nostra una parte significativa della cultura segua il movimento opposto e si condensi. Tra gli effetti principali effetti c’è quello di conformare i gusti del pubblico alla logica dell’intrattenimento. E intrattenimento diventa sinonimo di semplificazione dei linguaggi: dall’italiano standard della TV ai romanzi dal volo radente che rinunciano ad affrontare sul serio le problematicità della vita. Insomma, tiranneggiano le dee attualità, novità, mediocrità. Si vive confinati nell’orizzonte del presente, tanto che l’ideologia del corpo ha preso il sopravvento su ogni trascendenza. Nel migliore dei casi le esigenze di utopia e di spiritualità vengono dissolte nel calderone della New Age o di quel che ne resta. Il corpo glamour, con tutto il suo contorno di vita mondana e viaggi esotici, costituisce oggi una delle massime aspirazioni collettive. E l‘investimento principale da fare non è sugli altri ma su se stessi. Come sa bene qualsiasi attore queste sono le dure regole dello spettacolo. E queste regole sono diventate oggi habitus mentale. Il vantaggio di tale pragmatismo è dato da una radicale semplificazione della vita: se il tuo prodotto (culturale e non) non ha successo lascia perdere.  
Insomma, l’umanesimo è finito da un bel po’ ed è finito anche il tempo delle avanguardie. Il grande pubblico del terzo millennio chiede modelli culturali per passare da un’identità all’altra. Certo ricorre ancora al testo scritto quando è in crisi. Ma sotto forma di manuali di auto-aiuto e di rubriche per i lettori. Ci sono in commercio ormai così tante verità che ognuno compra la sua finché non si stanca e cambia. Tutto questo produce piccole e grandi mode cultuali in continua fluttuazione nel firmamento mediatico tanto che la parola “rivoluzione” è talmente abusata che non si sa più bene cosa voglia dire. Persino il principe Harry è definito un ribelle. In questo traffico di icone lo stilista, il tecno-scienziato e la rockstar sono rivoluzionari di professione in servizio permanente effettivo. E offrono verità provvisorie al pubblico. Verità buone per il qui e ora in attesa della prossima rivoluzione.  
La produzione tecnica dell’immaginario collettivo ha trasformato il modo di lavorare  e di consumare il prodotto culturale (ad esempio dando vita al romanzo natalizio e a quello scritto per essere sceneggiato), e ha generato un nuovo tipo di consumatore. Di più: una nuova figura sociale perennemente assetata di novità da divorare rapidamente. E le industrie culturali sono pronte a soddisfare tale domanda. Se si aggiunge l’enorme pressione esercitata dai visual media, la generalizzata contrazione della carta stampata e le trasformazioni del modo di comunicare indotte dalla rete comprendiamo quanto siano solide le colonne dell’immaginario culturale fondato sullo spettacolo. E quanto sia penoso lo scacco in cui è costretto l’immaginario fondato sul libro. Tutto questo suggerisce che forse siamo alle battute finali di una guerra per l’egemonia culturale. Al momento il consumatore di immagini assedia il lettore impegnato.

(«VIAPO», 15/03/2014)

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