mercoledì 21 agosto 2013

Eisler, "Uomo lupo" e De Benedetti, "Céline e il caso delle 'Bagatelle'". Due recensioni

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Un mondo pacifico è possibile? Tradotto per la prima volta in Italia Uomo lupo di Robert Eisler

Tutti noi abbiamo sentore che dentro il nostro essere esiste una regione refrattaria alla ragione e alla vita artificiale condotta in società. Freud chiamò questa regione: inconscio. Jung si spinse ancora oltre e parlò di inconscio collettivo. Secondo tale concezione la mente umana non è una tabula rasa ma è dotata di archetipi. Ossia di immagini primordiali comuni alla nostra specie e che ogni cultura elabora autonomamente attraverso riti e miti. La Caduta dell’Umanità, il Diluvio, la Grande Madre sono alcune di queste immagini.
Sulla scia delle scoperte di Jung l’esperto di iconografia e storico delle religioni Robert Eisler (1882-1949) pubblicò nel 1948 un’opera da poco tradotta in italiano con il titolo: Uomo lupo. Saggio sul sadismo, il masochismo e la licantropia (Edizioni Medusa, 316 pagg., 24 euro). A dire il vero Uomo lupo è per ora l’unico libro di Eisler nella nostra lingua. Si tratta essenzialmente di un saggio sull’aggressività umana che scava nella notte dei tempi per riportare alla luce le cause profonde del sadismo e del masochismo. Eisler compie quest’impresa da archeologo in virtù di una sbalorditiva erudizione. Ma se una qualità del libro è data dallo sterminato sapere del suo autore non meno interessanti sono le tesi esposte (peraltro in solo una quarantina di pagine; il resto del volume è composto da note, schede e appendici).
L’oggetto di indagine di Eisler è un paradosso della mente umana: la tendenza a provare piacere nel subire dolore o infliggerlo ad altri. Attenzione: il desiderio di soffrire non significa necessariamente farsi frustare per raggiungere la gratificazione sessuale. Ma più semplicemente sperimentare un dolore riferito assistendo a una commedia drammatica o un incontro di boxe. Allo stesso tempo non è indispensabile diventare dei serial killer per definirsi sadici. Basta la soddisfazione che proviamo per la brutta fine che fa il cattivo del film.
Allora come è nato e perché si è sviluppato nella cosiddetta vita normale il paradosso piacere/dolore? Utilizzando una prospettiva multidisciplinare Eisler sostiene che una svolta nell’alimentazione ha indotto l’umanità alla violenza endemica che da millenni conosciamo. Tale svolta consiste nel passaggio da una dieta sostanzialmente vegetariana al consumo di carne. Insomma, prima che gli esseri umani diventassero carnivori la pace regnava sulla terra. Il che è confermato da miti (l’Età dell’Oro), religioni (il Paradiso terrestre della Bibbia) e ancora oggi dalla presenza di comunità impropriamente definite primitive che non conoscono la caccia e la guerra.
Come accade che a un certo punto della preistoria l’uomo diventa carnivoro? Evidentemente per fame e imitando predatori che cacciano in branco. Qui entra in scena la licantropia. La quale non va intesa nel senso superstizioso del termine (la leggenda del lupo mannaro) ma come la trasformazione dell’uomo vegetariano in carnivoro. Carnivoro che si traveste con pelli animali: lupo, leopardo, orso. A questo punto mito e realtà si fondono: davvero le furiose menadi cacciavano di notte nelle foreste indossando pelli di volpe, leopardo e lince.
A spese di  altri animali il nuovo predatore colonizza la terra, assume una definitiva posizione eretta, diventa glabro, confeziona abiti fatti di materiali animali e vegetali. L’abito genera la nudità e la nudità il senso del pudore. Nasce così un nuovo stile di vita che produce complicati riti per espiare la colpa di vivere prendendo la vita altrui. Ecco imporsi la coscienza del peccato e dunque la mutazione bio-culturale è compiuta. Tanto che oggi possiamo affermare che tutti noi discendiamo dalla varietà carnivora licantropica. Ma per quanto sprofondato negli abissi della preistoria il passato dell’uomo arboricolo e frugivoro non è definitivamente morto. Nell’inconscio resta la reminiscenza di una vita pacifica in un qualche paradiso perduto: la Caduta dal Giardino dell’Eden è dunque un archetipo. Volendo volare più in basso è certamente un’espressione archetipica anche il successo di Tarzan nell’immaginario collettivo di noi civilizzati. Successo che ci riporta inconsciamente a quando gli ominidi vivevano nelle foreste, in pace con gli animali, nutrendosi di bacche e frutta. Tuttavia il lupo può svegliarsi in qualsiasi momento a causa delle continue manifestazioni di sadomasochismo che caratterizzano la nostra vita di esseri evoluti. Allora la domanda chiave è: si può tornare all’innocenza dell’uomo vegetariano? Eisler lascia aperta la porta alla speranza nonostante, in quanto ebreo, sia stato internato nei campi di concentramento nazisti e sia sopravvissuto a stento. Se c’è stata una Caduta allora la natura umana non è quella del predatore ma di un essere vegetariano e nonviolento: possiamo domare il lupo che è in noi.

(«VIAPO», 29/12/2011)



L’autocensura di Céline. Il caso delle “Bagatelle”, un saggio di Riccardo De Benedetti

Vedersi censurati è quanto di più sgradevole possa capitare ad un autore. Ma autocensurarsi? In questo caso le cose si complicano. Si complicano a tal punto che il critico deve sudare sette camicie per aprire un varco nell’interdetto volontario. Dinanzi a questo difficile lavoro (anche contro la volontà dell’autore) Riccardo De Benedetti non si spaventa. Rimboccatosi le maniche ha appena dato alle stampe: Céline e il caso delle “Bagatelle”, (Postfazione di Giancarlo Pontiggia), Medusa, 166 pagg. 14 euro.
All’indomani del secondo conflitto mondiale l’autore del Voyage au bout de la nuit vieta la pubblicazione dei suoi pamphlet antisemiti e anticomunisti: Bagatelles pour un massacre (1937), L'École des cadavres (1938), Les Beaux draps (1941). Divieto ancor oggi fatto valere da Lucette Almanzor, moglie dello scrittore e depositaria dei diritti sull’opera letteraria del marito. Insomma, bisognerà attendere ancora una ventina d’anni prima che i libri di Céline siano di dominio pubblico. Nel frattempo Bagatelles e gli altri libelli restano oggetti misteriosi di cui si discute (quasi sempre per bollarli d’infamia) ma che non si conoscono, transitano nei circuiti semiclandestini dell’estrema destra e sono presenti in pochissime biblioteche pubbliche.
Céline e il caso delle “Bagatelle” è un tascabile composto da tre brevi e densi capitoli curiosamente privi di titolo. Il primo affronta i motivi dell’antisemitismo céliniano. Il secondo ripercorre il dibattito sulle opere dello scrittore nel corso del processo in contumacia celebrato a Parigi nel 1945. Il terzo capitolo affronta l’accoglienza di Bagatelle in Italia. In un piccolo volume si ha così un quadro assai completo della vicenda del pamphlet più noto di Céline.
Per affrontare l’ostracizzato Bagatelles dal mondo delle lettere De Benedetti si interroga sulla natura dell’interdizione che lo ha colpito. E’ giuridica? Morale? Letteraria? Il testo céliniano è semplicemente grottesco e privo della pur minima dignità scientifica. Dunque le sue tesi sono facilmente smontabili. Eppure per il biografo di Céline, François Gibault, pubblicare oggi Bagatelles e gli altri pamphlet sarebbe una provocazione. Affermazione che non convince De Benedetti. Il quale ritiene (e siamo d’accordo con lui) che i libelli di Céline vadano rieditati. Anche perché la loro vita sotterranea non fa che alimentarne l’aura, rallentando la ricostruzione critica.
Tenere sottochiave i libri maledetti di Céline ostacola sostanzialmente il dibattito su domande decisive: Bagatelles e gli altri pamphlet sono opere di finzione? Hanno contribuito alla Shoah? Il razzismo di Céline è un’opinione e come tale resta esclusivamente nel regno delle opinioni? Hanno ragione André Gide e Henry Miller che pur con qualche arrampicata sugli specchi assolvono l’autore delle Bagatelles? Di che tipo è il pacifismo di Céline? I libelli rientrano nell’idea della morte della letteratura? Pur offrendo le proprie risposte a queste e ad altre domande De Benedetti apre soprattutto la strada per un confronto. E confronto sia.
Dopo essere tornato pacifista dal fronte della Grande Guerra, Céline diventa filonazista e abbraccia la teoria della razza ariana. Sono gli anni in cui pubblica i suoi poemi dell’odio dando la stura a una travolgente paranoia che lo condurrà all’emarginazione. E’ patologicamente ossessionato da ebrei e comunisti (che, attenzione, per lui sono la stessa cosa). Questo assillante senso di persecuzione riguarda solo Céline? O è un endemico meccanismo della modernità di cui ancora non ci siamo liberati? In altri termini: abbiamo implacabilmente bisogno di un nemico? Sembra proprio di sì. E sembra che questa spinta muova anche De Benedetti. Appena s’imbatte in qualcosa di sinistra vede rosso e, come Céline, perde il lume della ragione. Un esempio. A un certo punto De Benedetti si chiede: se le Bagatelles sono un testo dell’odio quanti altri testi dell’odio di classe dovrebbero essere sottoposti allo stesso embargo? Dimentica così che l’embargo delle Bagatelles è volontario, ma soprattutto che storicamente il concetto di odio di classe è stato sviluppato dal padronato (per promuovere leggi contro i lavoratori) e niente ha a che fare con il concetto di lotta di classe (criticabile finché si vuole, naturalmente, ma si tratta di tutt’altra cosa). Sono diversi i passaggi in cui, accecato dall’anticomunismo, De Benedetti perde la bussola e precipita nell’intolleranza. Esattamente come Céline. Per questo è importante studiare le Bagatelles. Capirle e criticarle ci può indurre a un maggior rispetto della pluralità di pensiero.

(«VIAPO», 18/02/2012)

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