venerdì 10 febbraio 2012

Antropologia della creatività: tra genericità e modalità

di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com; I di 3)

Abstract

There is a connection between human nature and creativity: human creativity is paradoxically a biological necessity. i) Human nature is creative because (according to Marx, Scheler, Plessner, Gehlen, Heidegger and Derrida) man is by nature over-natural. Man is not umweltbedungen, he is weltoffen: thus, he has to create his own world and way of life – that is, he is weltbildend. Human nature is neither degender nor genetic, but it is generic: therefore, it is specified in different and creative historical modes. ii) Creation moves from the datum (seen as a dandum) in order to overcome it, first of all catching it as such – its Als (as Heidegger suggests). Consequently, human creativity is not ex nihilo, as shown by the wittgensteinian «paradox of the rule»: creativity is possible only through the ap-plication of a rule, the em-ployment of which is as much a re-plica as a fold, that opens up lots of unexpected ways of using and the institution of a new rule. iii) Creativity itself should be conceived in terms of «genericity»: there is no reason to privilege only one of the dimensions in which it takes shape. Finally, the ancient symbolic dimension of logos can offer a renewed definition of human nature in its «natural unnaturalness» and in its constitutive openness to possibility.

1. Natura umana e(s)t creatività

Muovo da alcune affermazioni di Ficino e Campanella. Per il primo, fedele alla concezione tradizionale dell’ars come «naturae imitatio» (Teologia platonica, IV, 1), l’attività delle varie arti è completamente improntata alla libertà, rendendo non schiavi della natura ma anzi emulando il suo operato («humanae artis fabricant per seipsas quaecumque fabricat ipsa natura, quasi non servisimus naturae, sed emuli»: ivi: XIII, 3): l’uomo che domina la terra grazie alle sue mirabili doti poietiche è comparabile a Dio («denique qualiscumque terra sit, huius homo est Dominus. Est utique Deus in terris»: ivi: XVI, 6). Il secondo scrive:

i bruti non conoscono gli astri, né la costituzione del cosmo, né gli equinozi e la previsione delle eclissi, né la congiunzione dei corpi celesti e i loro effetti sulla natura, come invece conosce l’uomo, che nella contemplazione di questi fenomeni sembra quasi un altro creatore del mondo [quasi alter opifex mundi] e, quando Dio opera nei cieli una qualche alterazione, la avverte immediatamente e, come se gareggiasse con Dio [quasi aemulus Dei], erige tosto nuove tabelle dei moti celesti (Campanella 1960: 47).

Privo dell’istinto, «impulso di senso antivedente il bisogno» (Campanella 2007: 87), l’uomo è l’animale pro-meteico e pro-gettante, cioè aperto creativamente al mondo: per questo può non solo – imitando – «apprendere le conoscenze possedute anche dagli animali» (Cerasi 2010: 113), ossia imparare quelle attività astute che gli animali compiono per via istintiva, ma anche – soprattutto – (cercare di) farsi «sicut Deus», quasi «fabro del cielo» (Campanella 1960: 19 e cfr. 43-46; 2007: 92-94), a immagine e somiglianza di Dio, del facitore del mondo intero, vero e proprio creator ex nihilo. Tale caratteristica umana è interpretabile come una vera e propria «naturale tendenza a divinizzarsi» (Cerasi 2010: 120): l’uomo è quella parte della natura che ha la tendenza a trascenderla, o – ancora – l’uomo è naturalmente più che naturale, per natura meta-fisico. Tale concezione è espressa in maniera più sistematica dall’antropologia filosofica novecentesca[1], «disciplina» che ha tematizzato la differenza tra animale e uomo confrontandosi con le ricerche scientifiche, dando vita a un’antropologia incentrata sui concetti di Weltoffenheit, Exzentrizität e Mangel: l’uomo è biologicamente l’essere aperto alla Welt per l’assenza di un’Umwelt specifica, e mancando così di istinti guida, programmi comportamentali predefiniti e specifiche armi di difesa, è chiamato ad agire e a prendere attivamente posizione rispetto a quanto lo circonda, sfruttando la complessità aspecifica del suo cervello e del suo corpo. Se l’animale è chiuso nella perfezione ambientale, immediatamente naturale, se la divinità è chiusa nella perfezione assoluta di se stessa, immediatamente positiva, l’uomo è una realtà intermedia tra le due, conduce un’esistenza mediata, è imperfetto ma proprio per questo può perfezionarsi, agire e determinarsi rapportandosi a quanto incontra[2].
L’uomo è animale storico-potenziale perché chiamato all’azione e all’attiva determinazione e configurazione del mo(n)do in cui vivere, senza poter far riferimento ad alcuna necessità, modello ideale naturale o essenza predefinita. Perciò, è l’animale naturalmente artificiale e artificialmente naturale: per natura meta-naturale e in maniera meta-naturale naturale[3]. Come meta-teatrale è il teatro nel teatro, così meta-fisica è la natura nella natura: la techne è una physis alla seconda potenza, è ciò che nella natura tenta di sostituirvisi cercando di presentarsi essa stessa come natura, imitandola proprio nel momento in cui se ne separa. La sfera culturale è stata considerata sin dall’antichità come seconda natura (si pensi alla caratterizzazione dell’ethos/habitus) e ciò va inteso nel senso di natura (alla) seconda. Techne = (physis)²: questa la radice della metafisica, del potenziamento oltrepassante della natura interno a essa e che al contempo la ri-eleva a un livello superiore. La natura stessa si eleva quasi raccogliendosi in se stessa per potenziarsi e farsi tecnica: la cultura va pensata come «natura differita – differente [différante]» (Derrida 1997: 46), e «tutto ciò che è altro dalla physistechne, nomos, thesis, società, libertà, storia, spirito, ecc. – come physis differita o come physis differente [différante]» (ibidem), insomma come «physis in différance» (ibidem) – come «uscita fuori di sé della natura» (ivi: 199), natura che «si inverte da sé» (ibidem)[4]. Al contempo, physis = √ techne: alla radice della tecnica ritroviamo sempre proprio quella natura che essa intende superare e lasciarsi alle spalle, la tecnica è sempre e comunque radicata nella natura, essendo appunto il movimento di fuoriuscita da sé da parte della natura. L’uomo ek-siste, è pura es-posizione, è pelle nuda esposta al mondo e cervello plastico consegnato al contatto esperienziale con l’alterità (dire mondo è dire alterità): l’uomo è letteralmente l’esponente della natura («natura alla seconda», appunto), il suo Aufheber, per così dire: «Dasein (l’uomo come esponente dell’essere) espone così l’essere in quanto essere» (Nancy 2001: 129) – dove l’essere è heideggerianamente inteso proprio come physis. E-sistere significa condurre la vita s-porgendosi verso il fuori e l’alterità, s-lanciandosi verso il futuro: l’uomo è l’animale letteralmente pro-meteico e pro-gettante, la direzione in cui procede la sua esistenza non è teleologicamente bensì  teleoclinamente orientata, la meta è sempre immanente al suo procedere, sempre provvisoria e aperta, mai definitivamente compiuta[5].
L’uomo è biologicamente caratterizzato dall’«affrancamento dalle catene della biologia: tra tutte le nostre azioni importanti, assai poche sono preprogrammate e preordinate nei nostri geni» (Robertson 1999: 299), siamo capaci «di plasmare il nostro cervello in un numero di modi pressoché infinito […] in mille maniere» (ivi: 300 – corsivi miei), ma «sempre entro determinati limiti biologici» (ibidem). «L’espressione di molti geni è soltanto possibile dato il giusto tipo d’esperienza» (ibidem): se certo «i nostri geni pongono dei limiti a quello che il cervello può e non può fare» (ivi: 186), è però vero che «invece di specificare tutti i nostri possibili comportamenti, i geni hanno trasmesso al cervello una sensibilità alle impronte dell’esperienza» (ibidem – corsivi miei). Il cervello si arricchisce «di elementi nuovi, non previsti dal codice genetico: in questo vediamo come la specie trascende il proprio patrimonio genetico per scolpire il cervello usando i mezzi della cultura» (ivi: 178). La «predisposizione biologica» (ivi: 179) genetica, anche quando interviene più direttamente, fornisce «basi […] che ci comunicano […] capacità» (ibidem) che «necessitano poi del nutrimento dell’esperienza per esprimere al meglio le potenzialità dei geni» (ibidem):

l’uomo è programmato geneticamente, ma è programmato per apprendere. […] Anche se i geni e gli ormoni orientano lo sviluppo cerebrale, i circuiti neurali sono essenzialmente costruiti grazie alla nostra storia personale. […] L’essere umano è l’unico a poter sfuggire alle leggi dettate dai geni e dagli ormoni […]. Perché noi non siamo vincolati dai limiti del determinismo biologico (Flamigni 2008: 223 s.).

Siamo così programmati per essere potenzialmente aperti al mondo: non tanto geneticamente quanto genericamente programmati[6]. La natura umana non è dunque né genetica né degenere, bensì generica: l’uomo è «Gattungswesen» (Marx 2004: 69-75 e 109-115)[7], «essenza generica» (Preve 2002: 105 s.; 2006: 11-17, 68-70 e 124-126), apertura potenziale del/al mondo che si determina modalizzandosi temporalmente, specificandosi storicamente e declinandosi relazionalmente. Tale concezione è sintetizzabile tramite alcune note manoscritte in calce all’Ideologia tedesca, commento delle note affermazioni circa il fatto che a caratterizzare l’uomo sono il Verhältnis, tanto «azione» quanto «relazione» – azione concepita come relazione: (rel)azione –, e la capacità di cogliere l’Als, l’in quanto tale della relazione, ossia la possibilità di prendere le distanze da quell’ambiente in cui pur sembra immerso: «gli uomini hanno storia perché devono produrre la loro vita, e lo devono, precisamente, in una maniera determinata: ciò è dovuto alla loro organizzazione fisica; così come la loro coscienza. […] La mia relazione con le mie circostanze è la mia coscienza [die Menschen haben Geschichte, weil sie ihr Leben produzieren müssen, und zwar müssen auf bestimmte Weise: dies ist durch ihre physische Organisation gegeben; ebenso wie ihr Bewußtsein. […] Mein Verhältnis zu meiner Umgehung ist mein Bewußtsein]» (Marx-Engels 1966: 243 s.). Queste poche righe condensano un insieme di elementi fondamentali: legano in maniera esplicita umanità, storia, prassi, antropopoiesi, specificazione modale della genericità della natura attraverso l’attiva produzione del mondo, naturale tecnicità umana in rapporto alle condizioni biologico-organiche, coscienza intesa come prodotto relazionale (come prodotto del Verhältnis concepito come l’insieme del comportamento-azione-relazione), azione come espressione della relazione al mondo, apertura come riferimento all’alterità (dell’Umgebung in generale e degli altri uomini in particolare), bisogno come condizione specificamente umana e conseguente esposizione al «fuori» e all’«esterno», capacità umana di cogliere l’in quanto e dunque di distaccarsi dall’ambiente per aprirsi liberamente all’ulteriorità, mancanza di una misura e di una modalità naturale di conduzione dell’esistenza[8] che spinge l’uomo a dovere reperire anzi istituire una pluralità imprevedibile di modi diversi di sopravvivere e ben vivere, selezionandone di volta in volta uno in grado di specificare e determinare la genericità che caratterizza la sua natura, senza però che tale modus risulti e possa mai risultare quello definitivo.
L’uomo è quell’essere che per natura è chiamato ad agire, ad avere un rapporto mediato con quanto lo circonda, all’esposizione con il fuori e con l’altro da sé per cercare di trovare e determinare attivamente se stesso, è in rapporto-a e in relazione-con (zoon politikon in senso ontologico e radicale) – più semplicemente: l’uomo è creatività. Che l’uomo abbia un «comportamento» (Verhältnis: cfr. anche Heidegger 1992) significa che la condotta della sua vita è una questione di «modi di essere», perché comportarsi riguarda il come agire in una determinata situazione. «Tutto quello che è, è in qualche modo» (Peirce 1992: 8), e ciò vale soprattutto se si prende in considerazione la capacità specificamente umana di creare abiti, tentativo per Peirce di stabilizzare il processo semiotico e il comportamento attraverso una regolarità che se da un lato cerca di produrre una tendenza ad agire in a similar way in circostanze simili che si presentano nello scorrere del tempo, dall’altro lato è aperta ad applicazioni sempre diverse, nonché a essere compiuta in modi singolarmente e contingentemente diversi (ma, ancor prima, a essere appresa ed elaborata da ognuno in modo diverso). Il primo fondamentale compito creativo dell’uomo è così quello antropogonico di creare se stesso: l’uomo è davvero, secondo il noto motivo rinascimentale, artefice del proprio destino[9] – già dalla vita fetale (cfr. Mancuso-Zezza 2010: 69-118). La genericità che contraddistingue la natura umana si trasfigura così in generatività, in creatività.
L’uomo, dicevamo, imita Dio tramite quella tecnica che lo rende quasi a tutti gli effetti creatore[10], l’uomo imita la creatività divina e mima il movimento produttivo della natura. Creazione come attività mimetica, ma come imitazione che ripete differendo perché sempre accompagnata dalla di-version, naturale tendenza insita nella natura umana, espressione dell’inclinazione tipicamente umana a s-viare (cfr. Montaigne 1992: 1100-1114), a prendere vie traverse, oblique e indirette per trovare una via di scampo[11], a compiere digressioni di-vergendo e de-pistando rispetto al sentiero consueto, ma proprio percorrendo la via solita, la via della consuetudine, capacità segno in ultima istanza della natura creativa dell’uomo, l’essere aporos pantoporos: «l’animale umano è in grado di modificare le sue forme di vita, divergendo da regole e abitudini consolidate. […] L’animale umano è “creativo”. […] La “creatività” umana consiste proprio e soltanto in queste digressioni applicative» (Virno 2004: 11 e 25), per quanto resti sempre vero che «l’azione trasformativa è intermittente, o addirittura rara» (ibidem), e avviene per lo più in occasioni eccezionali o in situazioni critiche. In altri termini, «la capacità di innovazione […] costituisce una prerogativa permanente della natura umana: sebbene concorra a rendere possibile la storia, di per sé essa è e resta metastorica» (Virno 2010(a): 33 s.). La capacità di innovare è pertanto «una dotazione biologica innata, non passibile di cambiamenti» (ivi: 19), in un paradossale intreccio per cui è l’invariante della natura umana a rendere possibile se non a imporre la variabilità storico-culturale in cui tale natura si esprime e specifica.
La tesi di fondo che intendo proporre è dunque che l’uomo, sprovveduto istintualmente, è costitutivamente aperto al mondo e alle prese con una sovrabbondanza di stimoli non finalizzati biologicamente e da cui dunque non possono discendere comportamenti univocamente determinati: il suo agire è aperto e infondato e proprio per questo libero e creativo[12]. Per intendere la «creatività» è necessario correlare il termine «al modo in cui la nostra specie si adatta all’ambiente, dunque al modo in cui essa esegue l’insieme di compiti operativi e cognitivi che ne garantiscono la sopravvivenza» (ivi: 12), perché per l’uomo «sussiste una certa disaderenza nei confronti del proprio contesto vitale» (ibidem) tale che «la risposta agli stimoli ambientali non è prefissata, ma deve essere precisata volta per volta, implicando sovente l’adozione di un comportamento innovativo» (ibidem). La creatività umana, «carattere saliente del comportamento umano» (Garroni 2010: 50) in quanto condizione e non limite della sua «capacità di specificar[si] in tutte le direzioni» (ibidem), è espressione dell’impossibilità di un «adattamento totale» e di una «sicurezza assoluta», ma anche della presenza di «capacità illimitate di scelta […] sotto una legalità assai generale» (ivi: 174-176), ossia generica e proprio per questo aperta alla specificazione modale, «capace di specificarsi nei modi più diversi e opportuni» (ibidem – ma anche inopportuni): la creatività è in ultima istanza «l’attitudine a specificare leggi e principi assai generali» (Virno 2010(a): 17), a modalizzare e determinare la propria natura generica e a-specifica.

[1] Cfr. Gehlen 1990; 2003; 2005; 2010; Plessner 1967(a); 1967(b); 2006(a); 2006(b); Scheler 2004.
[2] «Il livello dell’uomo è il livello delle possibilità […]: il livello di una mediatezza non animale nella relazione con l’oggetto e una distanza dalla realtà che viene al contempo conservata e superata da quella mediatezza» (Jonas 1999: 222).
[3] «Da quando si umanizzano, gli uomini si artificializzano […]. Il superamento della natura crea l’umano» (Onfray 2011: 161), e questo in ragione del fatto che «noi non siamo capitale genetico, ma il prodotto della sua interazione con la sostanza e lo spessore del mondo» (ivi: 162): per questo il pensatore può scorgere «al di là della fisica abitualmente conosciuta» (ivi: 165), una «nuova metafisica – nel senso etimologico: […] al di là della fisica» (ibidem). Su tali questioni l’autore è tornato più diffusamente in Onfray 2003. Va comunque sottolineato che l’autore sembra mettere troppo tra parentesi la naturalità di questo movimento di snaturamento in cui consisterebbe l’umano: tutto sta nel come viene letto il «della» nella frase «il superamento della natura crea l’umano».
[4] «Ciò che nella natura è più naturale comporta in se stesso di che uscir da sé; esso fa lega con […] [l’]artificiale» (ivi: 325). Se «lo ‘stato di natura’ ha già in sé le stimmate dell’artificio» (Preterossi 2011: 10), allora «la natura che chiama all’artificio è artificiale essa stessa, cioè contiene in sé la ‘differenza’ che la rende problematica» (ivi: 11). Cfr. però soprattutto Derrida 2006 e Chiurazzi 1992.
[5] Cfr. Cavarero 1997: 8 s., 113, 181-187; Ceruti 1986: 17, 52 s. e 130-143; Cusinato 2008; Hardt-Negri 2010: 63 e 436.
[6] Cfr. p. e. Benoit-Vidal 2006; Boncinelli 2000; Cavalli Sforza 2010; Gould J.-Gould C. 2008; Jacob 1971, 1983; 1998; Kagan 2011; LeDoux 2002; Maffei 2011; Marchesini 2002; Marcus 2008; Mascie Taylor-Barry 1995; Medina 2011; Monod 1971: 106-128; Morin 1974; 2002; Moro 2010: 272-283; Richerson-Boyd 2008; Ridley 2005; Rupie-Sonigo 2009.
[7] Cfr. anche Agamben 2001: 104-109 e 127; 1996: 92.
[8] Cfr. p. e. Democrito, DK 68, B191, B3, B189, B198; B191; Hegel 2007:  611-613, 631, 655 e 689-695.
[9] Cfr. p. e. Cassirer 2004: 144; Jonas 1999: 235 s.; Kelly 2011: 194; Remotti 2002; 2011: 77-86, 127-182 e 281-299.
[10] «L’uomo, in molte dimensioni della sua vita, può essere realmente ciò che è solo passando per il cammino dell’irrealtà. […]. Produce la possibilità della realtà prima di produrre la realtà. Proprio in questo è simile alla Creazione. […] La vita umana è una quasi-creazione, perché, prima che nel produrre realtà, consiste precisamente nel produrre la possibilità che poi attualizza nelle azioni della sua realtà» (Zubiri 2008: 228 s.).
[11] Risuonano qui gli straordinari versi sofoclei secondo i quali l’uomo è pantoporos aporos (Sofocle, Antigone, vv. 332-375).
[12] «La libertà dell’uomo in quanto proprietà della specie si radica nella conformazione organica del suo corpo, caratterizzata dalla posizione eretta, dalla mano libera di manipolare gli oggetti, dallo sguardo rivolto in avanti, dalla voce modulabile all’infinito e, soprattutto, da quel cervello straordinario che dal centro governa su queste facoltà» (Jonas 1992: 39). Sull’intreccio profondo tra dimensione ontologica e biologica nel pensiero jonasiano si vedano perlomeno Franzini Tibaldeo 2009; Michelis 2007.

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