martedì 6 settembre 2011

D'essai, "Mammuth" e "Another Year"

di Silvia La Posta (laposta.silvia@gmail.com)

Mammuth
La classe operaia sembra davvero ispirare i due registi Delépine e de Keverne, che le avevano già dedicato il loro primo successo internazionale, Louise Michel (2008).
Anche in questo film è forte il timbro grottesco: vi sono tenere caricature, meschinamente umane e abbrutite dal lavoro sottopagato. Tra queste emerge un enormemente buono Gérard Depardieu, devoto animale da lavoro in cerca di un senso da dare alla propria vita dopo il pensionamento. Un road movie dolce e amaro, poetico, di un realismo meraviglioso perchè sporco, basso, eppure colorato e vitale; un film, che forse deve qualcosa alla memoria della Nouvelle Vague, in cui parola e silenzio assumono pari valore lirico. 
Delépine e de Kervern giocano con la sensibilità materiale della pellicola creando immagini sgranate, sovra-esposte e sature, donando al film un sapore onirico a cui contribuisce la presenza di Miss Ming e delle sue bizzarre opere. Al suo intervento si deve lo spostamento del linguaggio filmico su un piano decisamente più surreale, sovrastando la dimensione realista che vivacizzava la narrazione.
Mammuth resta ad ogni modo un film difficile, sicuramente non appetibile ai più, ma di stile interessante e di forte carattere, che non può passare inosservato agli amanti del cinema d'autore "minore".


Another Year 
Dopo l’agrodolce La felicità porta fortuna (2008), Mike Leigh si riconferma un maestro nel catturare e ritrarre quanto di poetico c’è nella banalità del quotidiano. Per la prima volta il regista inglese affronta il tema dell’invecchiamento, del passaggio dalla maturità alla senilità, simboleggiato dallo scorrere delle stagioni: per ognuna di esse un capitolo del film. Tuttavia, se prima l’amarezza del realismo puro e duro "alla Mike Leigh" risultava alleggerita da una certa ironia delle situazioni, da un gusto per i giochi di parole e per il grottesco, Another Year appare più stanco e riflessivo che mai persino agli affezionati del regista, perdendo quella scintilla di vitalità che pur illuminava la cruda realtà rappresentata dei lavori precedenti. La lentezza della narrazione (ricca di sequenze in tempo reale) e l’aleatorietà di una "trama" vera e propria, caratteristiche che avevano sempre qualificato la tecnica di Leigh, producono in questo caso un senso di disagio che, forse, va oltre le intenzioni del regista.
Notevole invece l’interpretazione del cast, formato per la maggior parte da consolidate conoscenze di Leigh: Ruth Sheen, Lesley Manville, Peter Wight, per citarne alcuni. Volti apparentemente presi dalla strada, quotidiani, ma estratti in realtà dal miglior repertorio inglese, dimostratisi sempre all’altezza di lavorare con un regista esigente e metodico come Leigh. È proprio all’incredibile espressività del volto della Manville che si deve l’ultima inquadratura del film: toccante, vera, struggente nella sua silenziosa e disperata discrezione.

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