lunedì 11 luglio 2011

La noia e l’Oriente

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

Petit, mièvre, mignard, – le Japon physique et 
moral tient tout entière dans ces trois mots-là…

Loti P., Madame Chrysanthème, cap. XLIV.

Ad apertura di romanzo, nella dedica, Pierre Loti afferma che i tre principali protagonisti sono: “[…] Moi, le Japon et l’Effet que ce pays m’a produit”(1) (M. C., p. 43). Quel che il narratore suggerisce al lettore è che il Giappone è descritto, raccontato, rappresentato, attraverso lo sguardo attento e colto di un europeo. È il suo punto di vista. Da subito lo spazio teatralizzato conquista un senso emotivo e, con lo scorrere dei capitoli, è sempre più razionale. Si tratta di un complesso processo poetico che trasforma lo spazio vuoto – come quello di Kurtz in Cuore di tenebra (1902), senza qui volere stabilire una relazione, comunque impossibile, tra le due opere – in qualcosa che ha senso sia per l’autore, nel momento della scrittura, sia per noi lettori, nel momento in cui leggiamo. Come ha bene messo in evidenza Bruno Vercier:

Le Japon rend inopérantes les vieilles recettes romanesques et Chrysanthème, loin de mourir d’amour devant “la mer calme”, préfère vérifier le bon aloi des piastres qu’elle a gagnées… Femme lisse, pays incompréhensible, totalement Autre: le romanesque, si romanesque il y a, sera autre également, naissant des rapports du Moi avec le Japon.
(2)

In questa ottica discorsiva è l’Europa, civile, colta, organizzata, ricca, ma anche e soprattutto potente, che dà intelligibilità all’Oriente. Il protagonista prende familiarità con l’esotico. In Madame Chrysanthème, lo incontra, lo sperimenta ancora una volta, dopo le esperienze vissute in Turchia (Aziyadé, 1879) e Tahiti (Rarahu, 1880, intitolato in seguito, Le mariage de Loti, 1882). Lo racconta dalla sua specula: “[…] il paese straniero è, sì, presente, a provocare l’apparizione del libro; ma esso non entra nel libro stesso: si ha a che fare solo con l’effetto, l’impressione, la reazione soggettiva”(3).
Lo stesso narratore sottolinea che le sue memorie, i ricordi, sono composti solo di: “[…] détails saugrenus; de minutieuses notations de couleurs, de formes, de senteurs, de bruits…”(4) (M. C., p. 164). È questa la collezione di impressioni di Loti. L’io narrante sottolinea per mezzo di una tecnica ricercata, studiata, affinata, la diversità dell’Est rispetto all’Ovest. C’è, però, in questo fascinoso ordigno narrativo un problema di metodo, che, a sua volta, è culturale. Il narratore ne ha consapevolezza e già in Rarahu, s’interroga su quest’aspetto assai rilevante per l’economia dell’opera: “Dove trovare in francese parole che esprimano qualcosa di questa notte polinesiana, di questi rumori desolati della natura?”(5). La stessa domanda si pone in Madame Chrysanthème: “Pour raconter fidèlment ces soirées-là, il faudrait un langage plus manieré que le nôtre; […]”(6) (M. C., p. 99). Una soluzione possibile – e di cui Loti fa largo uso – è l’impiego di parole straniere. Egli stesso se ne avvede, siamo nel capitolo XLIX, laddove nel nominare per la prima volta col nome originale lo strumento a tre corde suonato da Kikou-San, lo samisen, puntualizza: “[…] pour éviter ces termes exotiques dont on m’a reproché l’abus"(7) (M. C., p. 203). E ancora prima, nel capitolo VIII, l’io narrante si lancia in una nostalgica e assai ironica comparazione con i paesi già visitati:

Dans d’autres pays de la terre, en Océanie dans l’île délicieuse, à Stamboul dans les vieux quartiers morts, il me semblait que les mots ne disaient jamais autant que j’aurais voulu dire, je me débattais contre mon impuissance à rendre dans une langue humaine le charme pénétrant des choses.Ici, au contraire, les mots, justes cependant, sont trop grands, trop vibrants toujours; les mots embellissent. Je me fais l’effet de jouer pour moi-même quelque comédie bien piètre, bien banale, et, quand j’essaie de prendre au sérieux mon ménage, je vois se dresser en derision devant moi la figure de M. Kangourou, agent matrimonial, à qui je dois mon bonheur.(8) (M. C., pp. 83-84)

In questo processo egotico, autoreferenziale, di assimilazione della lingua (vero e proprio passe-partout di transitorietà socio-culturale verso l’Altro), della cultura giapponese, l’io narrante si rassegna ad etichettare la sensazione, non la descrive: «[…] in un “paese esotico” contraddistinto da una “grazia esotica”, egli conduce una “vita esotica”…» (T. T., 364). In Aziyadé, la sua compagna gli evoca i “profumi dell’Oriente”, la “indolenza orientale”, il “lusso orientale”. In Madame Chrysanthème, il fascino, il gusto, dell’Oriente gli è restituito, anche qui, dai profumi, i rumori, i paesaggi, la gente, la sua musmé. In questo articolato processo di elaborazione e re-interpretazione dell’Oriente, ogni cosa si presenta ai suoi occhi come bizzarra, fantastica, inimmaginabile, indicibile. Nel descrivere la natura e la gente, Loti si concentra su tutto quello che vi è di più caratteristico. Come ha osservato Todorov: “[…] in altri termini, per lui, il luogo comune esprime la realtà delle cose” (T. T., p. 365). A nostro avviso, si tratta anche di un fisiologico processo di assimilazione per gradi, dal generale al particolare. L’io narrante comincia col descrivere, raccontare, rappresentare le montagne di Nagasaki e finisce con i giardini, i piccoli cimiteri, i mazzi di fiori, i vasetti, i cibi e tutto quello che cade sotto il suo sguardo curioso e investigatore. In Turchia, con Aziyadé, si respirano i profumi balsamici e si è circondati di cupi sguardi pieni di fanatismo e oscurità. In Polinesia, con Rarahu, si contemplano gli snelli fusti delle palme di cocco. In Giappone, con Madame Chrysanthème, tra le altre infinite cose, si osservano: “[…] les gens sont tous nus, les enfants, les jeunes, les vieux, les vieilles, chacun assis dans une jarre, prenant son bain”(9) (M. C.
, p. 167).
L’atteggiamento, l’approccio, di Loti nei confronti del Giappone, come degli altri paesi – in questo, il disegno narrativo dell’autore è replicante – è ambiguo. Da una parte: “[…] egli ne subisce il fascino e vi trova un termine di paragone che gli permette di criticare l’artificio e la falsità europei” (T. T., p. 365). In Turchia vuole condividere la vita della gente del luogo. Vuole vivere libero dagli obblighi sociali e dalle convenzioni europee. A Tahiti si convince di avere davanti a sé una razza primitiva, che vive nell’ozio. In Giappone, secondo il suo punto di vista: “Les gens de ce pays-ci n’ont aucune conscience de l’heure, du prix du temps”(10) (M. C., p. 69), ulteriore e sottile distinguo tra l’eccellente organizzazione dell’uomo occidentale, del Bianco, contro la non organizzazione, la non civiltà dell’orientale, l’Altro. Queste fantasticherie primitiviste, ad ogni modo, non mettono mai in discussione – anzi esaltano – la scelta del narratore, che è di ritornare in quei paesi civili di cui è originario. In Aziyadé, spinge più a fondo il meccanismo di identificazione con l’Altro. Smette i suoi abiti da ufficiale e veste il fez e il caffettano. Si sistema a Istanbul, adotta il modo di vivere dei turchi, s’innamora – per davvero – di una ragazza del luogo, finisce per arruolarsi nell’esercito turco, per morire in battaglia – la morte epica che, alla fine della sua vita, non riuscì a coronare. In Rarahu, l’io narrante resuscita e, senza troppa fatica, rinuncia al progetto di fermarsi in quel luogo. Infine, in Giappone, lo sappiamo, la storia comincia male, sembra andare peggio, ma poi, un po’ per volta, il protagonista si ambienta. L’io narrante ripensa alle sue avventure pregresse: “[…] tandis que de tout temps j’ai été gâté, moi, par des petits logis autrement charmants que celui-ci, dans toute sorte de contrées dont le souvenir me trouble encore”(11) (M. C., p. 207). Nello stesso tempo, sempre alla vigilia della partenza, il protagonista è consapevole che: “Il va falloir quitter bientôt cette vie facile et presque amusante, ce faubourg nippon où le hasard a fait camper, et notre maisonnette au milieu des fleurs”(12) (M. C., pp. 206-207). Infine, siamo alla fine del capitolo L, l’io narrante si arrende di fronte ad un sentimento di rinuncia: 

Mais une âme qui, plus que jamais, me paraît être d’une espèce différente de la mienne; je sens mes pensées aussi loin des leurs que des conceptions changeantes d’un oiseau ou des reveries d’un singe; je sens, entre elles et moi, le gouffre mystérieux effroyable…(13) (M. C., p. 209)

D’altronde per Pierre: “[…] tous les pays de la terre arrivent à se ressembler; ils perdent le cachet imprimé sur eux par les hommes, les peuples; par les atomes qui grouillent en bas”(14) (M. C., p. 208). Riflessione assai rilevante questa, perché l’identificazione di Loti con il paese che visita va diminuendo. Ciò che gli impedisce il riconoscimento è che l’io narrante prova il sentimento di condurvi una seconda, una terza vita, del tutto diversa, distante, dalle precedenti. È un senso di fuga verso l’ignoto, un’incessante ricerca, un voler ritornare all’infanzia persa. A questo proposito, Bruno Vercier scrive: “Ce barbare est un artiste, un enfant qui cherche à réaliser des rêves d’enfant, qui veut à la fois le frisson de l’inconnu et la chaleur d’un refuge”(15) (B. V., p. 18). In Madame Chrysanthème, lo dichiara di continuo che in lui non rimarrà nulla delle giapponeserie che ha vissuto. Lo stesso pensiero, in modo dissimile, finisce con l’affermare in Aziyadé, dove l’identità orientale non coagula, non influenza l’identità occidentale. Sono due momenti diversi, scissi nella percezione dell’autore. Se egli ama Istanbul è perché lì può dissolvere la sua maschera occidentale per vestire quella orientale. Il fez e il caffettano sono un modo di vestire che l’io narrante si cuce sulla pelle, non sono il medium per un processo di identificazione con l’Altro, bensì di fuga dal quotidiano. Con l’arguzia argomentativa, che lo contraddistingue, a questo proposito Todorov afferma:

Ora un Loti giapponese, tahitiano, persino turco, non è mai un Giapponese, un Tahitiano, un Turco, non è più di quanto l’effetto prodotto dal paese si confonda con il paese stesso. La vera identificazione è impossibile, poiché le differenze tra “razze” sono insormontabili. (T. T., p. 367)

Così con Rarahu c’erano degli abissi, delle terribili barriere: “[…] tra noi che eravamo una stessa carne, restava la differenza radicale delle razze, la divergenza delle nozioni fondamentali di ogni cosa […]”(16). Lo stesso vale per il Giappone di Loti: “A ce Japon, comme aux petits bonshommes et bonnes femmes qui l’habitent, il manque décidément je ne sais quoi d’essentiel: […]”(17) (M. C., p. 217). Leggiamo anche nel capitolo XLV: “Et je songe, en les dévisageant: comme nous sommes loin de ce peuple japonais, comme nous sommes de race dissemblable!...”(18) (M. C., p. 187). Ancora più pregante di significati è il seguente brano del capitolo XXXIV:

[…] même les plus vieux livres ne nous l’expliqueront jamais que d’une manière superficielle et impuissante, – parce que nous ne sommes pas les pareils de ces gens-là. Nous passons sans bien comprendre au milieu de leur gaîté et de leur rire, qui sont au rebours des nôtres.(19) (M. C., p. 148)

Come ha bene osservato Todorov, richiamando il pensiero di Gustave Le Bon:

La visione di Loti riguardo alla comunicazione tra razze è paragonabile a quella del suo contemporaneo Gustave Le Bon: tra una razza e l’altra c’è la stessa distanza che tra noi e gli animali (le razze sono delle specie); non esiste dunque unità del genere umano. (T. T., 367)

Ad ogni modo Loti non ha nulla di cui rammaricarsi, perché è proprio da questo scarto di comprensione, di assimilazione, di comunanza, che nasce il fascino: “[…] l’esotismo non è altro che la mescolanza di seduzione e di ignoranza, il rinnovarsi della sensazione grazie alla stranezza” (T. T., p. 367). In Madame Chrysanthème, l’io narrante afferma: “[…] il y a tout un bagage prêt à partir […]”(20) (M. C., p. 223). E ancora qualche passo prima, siamo nel capitolo LI: “Mais quel effrayant bagage! Dix-huit caisses ou paquets, de bouddhas, de chimères, de vases, – sans compter les derniers lotus que j’emporte aussi, liés en gerbe rose”(21) (M. C., p. 218).
Lo stesso aveva già affermato in Rarahu. L’esotico l’avvicina a cose mai viste prima, del tutto sconosciute. Ciò accade perché Loti, alla stregua di tanti altri scrittori, è profondamente ostile alla mescolanza delle culture, in quanto questa comunanza diminuisce il loro coefficiente di esotismo. Non è un caso che Loti nutra solo del disprezzo per i giapponesi che imitano l’Occidente: “[…] quelques Japonais (encore peu nombreux heureusement) s’essayant à porter jaquette […]”(22) (M. C., p. 97). E, poi, ancora oltre, nel capitolo XXXII:

Ils ne devaient pas ressembler aux Japonais d’au-jourd’hui, les hommes qui ont conçu tous ces temples d’autrefois, qui en ont construit partout, qui en ont rempli ce pays jusque dans ses derniers recoins solitaires.(23) (M. C., p. 140)

Per potere vivere l’esperienza esotica è necessario che i popoli dell’Altrove siano preservati da un processo di occidentalizzazione – per molti versi solo utopistico. Là dove si crea un contatto duraturo, esperenziale, ri-formativo dell’Altro, l’esotico, l’orientale – per dirla alla Said – si disfà. L’autore si spinge ancora oltre nella sua riflessione. Egli è consapevole che, già all’interno del sistema codificato di valori tout-court dell’Altro, c’è un processo degenerativo – per il suo punto di vista – di sfaldamento dei valori tradizionali. Molti dei personaggi – tra questi il signor Zucchero e tutti quelli che roteano intorno al protagonista – e lo stesso Giappone sono come incartapecoriti:

Est-ce parce que je vais quitter ce pays, parce que je n’y ai plus d’attache, plus de gîte et que mon esprit est déjà un peu ailleurs, – je ne sais, mais il me semble que je ne l’avais jamais vu aussi clairement qu’aujourd’hui. Et, plus que de costume encore, je le trouve petit, vieillot, à bout de sang et à bout de sève; j’ai conscience de son antiquité antédiluvienne; de sa momification de tant de siècles – qui va bientôt finir dans le grotesque et la bouffonnerie pitoyable, au contact des nouveautés d’occident.(24) (M. C., p. 228)

Come ha messo in evidenza A. Quella-Villéger: “Il s’attache particulièrment au Japon traditionnel et se lamente sur l’invasion d’un modernisme industriel et guerrier qui défigure l’antique pays des samouraïs”(25) (Q.V., p. 146).
È anche vero che il Giappone che visitò Loti era in grande transizione storica. Con l’epoca Meiji (Kyoto 1852-Tokyo 1912, significa "Governo illuminato") si apre al mondo, alla tecnologia, in uno, appunto, al modernismo. Realtà che il narratore aveva ben compreso: “En ce qui est affaire d’adresse, de patience, et d’exactitude, ces petits Japonais ne pouvaient qu’exceller”(26).
Questo, secondo Loti, spiega come i giapponesi si siano appropriati tanto presto della tecnologia occidentale: “[…] on s’étonne seulement qu’ils n’aient pas inventé eux-mêmes, des millénaires avant nous, tout cela avec quoi ils jonglent aujourd’hui comme des virtuoses”(27).
Infine, ad apertura di romanzo, siamo nel capitolo II, Pierre fa una riflessione dal sapore amaro proprio perché complessivamente corretta, non sfugge alla realtà, non s’inganna:


Il viendra un temps où la terre sera bien ennuyeuse à habiter, quand on l’aura rendue pareille d’un bout à l’autre, et qu’on ne pourra même plus essayer de voyager pour se distraire un peu…(28) (M. C., p. 50)

(1) «[…] Io, il Giappone e l’Effetto che quel paese ha prodotto in me».
(2) Vercier B., “Préface”, in Loti P., Madame Chrysanthème, GF Flammarion, Paris, 1990, p. 7.«Il Giappone rende inoperanti le antiche ricette romanzesche e Crisantemo, lontana dal morire d’amore davanti “al mare calmo”, preferisce verificare il giusto valore delle piastre che ella ha guadagnato… Donna piatta, paese incomprensibile, totalmente Altro: il romanzesco, se di romanzesco ce n’è, sarà altro ugualmente, nascendo dai rapporti tra l’Io con il Giappone».
(3) Todorov T., Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, Paperbacks, Torino, 1991, p. 363.
(4) «[…] particolari bizzarri, di minuziose notazioni di colori, di forme, di odori, di rumori…», (S. C., p. 91).
(5) Cit. in Todorov T., Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, Paperbacks, Torino, 1991, p. 364.
(6) «Per narrare fedelmente quelle serate, occorrerebbe un linguaggio più manierato del nostro; […]», (S. C., p. 44).
(7) «[…] per evitare quelle parole esotiche di cui mi si è rimproverato l’uso […]», (S. C., p. 120).
(8) «In altri paesi della terra, in Oceania nell’isola deliziosa, a Istanbul nei vecchi quartieri morti, mi pareva che le parole non dicessero mai tutto quello che avrei voluto dire, mi dibattevo contro la mia impotenza a rendere in una lingua umana l’incanto penetrante delle cose. Qui, invece, le parole, per quanto esatte, sono troppo grandi, troppo vibranti; le parole abbelliscono. Faccio a me stesso l’effetto di recitare, per me solo, una qualche commedia assai meschina, assai banale, e quando cerco di prendere sul serio il mio matrimonio, vedo sorgere davanti a me, per deridermi, la faccia, del signor Kanguro, agente matrimoniale, al quale sono debitore della mia felicità», (S. C., p. 33).
(9) «[…] [le persone] tutti sono nudi, i bambini, i giovani, i vecchi, le vecchie… tutti seduti in una catinella, per fare il bagno », (S. C., p. 91).
(10) «La gente di questo paese non ha alcuna coscienza dell’ora, del valore del tempo», (S. C., p. 23).
(11) «Io invece, fui sempre viziato da soggiorni anche assai più piacevoli di questo, in ogni sorta di paesi, il cui ricordo mi turba ancora», (S. C., p. 123).
(12) «Dovremo presto rinunciare a questa vita facile e quasi divertente, lasciare il sobborgo giapponese dove il caso ci condusse ad accamparci, e la nostra casetta in mezzo ai fiori», (S. C., p. 123).
(13) «Ma è un’anima la quale più che mai mi pare di un’essenza diversa dalla mia. Sento i miei pensieri lontani dai loro quanto dalle concezioni mutevoli di un uccello o dalle fantasticherie di una scimmia; sento fra quelle creature e me l’abisso misterioso, spaventoso…», (S. C., p. 125).
(14) «[…] tutti i paesi della terra si assomigliano; perdono l’aspetto dato loro dagli uomini, dai popoli, dagli atomi brulicanti giù in basso», (S. C., p. 124).
(15) «Questo barbaro è un artista, un bambino che cerca di realizzare dei sogni infantili, che vuole sia il brivido dello sconosciuto sia, contemporaneamente, il brivido dell’ignoto e il calore di un rifugio».
(16) Ibidem.
(17) «Al Giappone, come agli uomini e alle donne che vi abitano, manca innegabilmente non so che cosa di essenziale», (S. C., p. 132).
(18) «Ed io penso, osservandoli, quanto siamo lontani, noi, da codesto popolo giapponese, quanto è diversa dalla loro la nostra razza!», (S. C., p. 107).
(19) «Nemmeno i più antichi libri ce ne daranno mai la spiegazione, se non in un modo superficiale e impotente – perché noi non siamo uguali alla gente di questa razza. Passiamo, senza capire bene, in mezzo alla loro allegria e alle loro risate, che sono a rovescio delle nostre…», (S. C., p. 77).
(20) «[…] c’è tutto un bagaglio pronto per essere trasportato […]», (S. C., p. 137).
(21) «Ma che bagaglio! Diciotto casse o involti, di budda, di chimere, di vasi, senza contare gli ultimi fiori di loto, che porto via insieme col resto, legati in un gran fascio roseo», (S. C., p. 133).
(22) «[…] alcuni giapponesi (ancora poco numerosi, per fortuna!) che tentano di portare la giacca […]», (S. C., p. 43).
(23) «Non dovevano somigliare ai giapponesi d’oggi, gli uomini che concepirono tutti questi templi antichi, che ne costruirono dovunque, che ne riempirono questo paese anche nei suoi cantucci deserti», (S. C., pp. 71-72).
(24) «Forse è perché sto per lasciare questo paese, perché non v’è più nulla che mi ci trattenga e perché l’animo mio è già un poco altrove, non so, ma mi pare di non averlo mai veduto tanto chiaramente come oggi. E più che mai, anzi, lo vedo piccolo, vecchio, ormai privo di sangue e di linfa; sento la sua antichità antidiluviana, la sua mummificazione avvenuta in tanti secoli e che presto finirà nel grottesco e nel buffo compassionevole, al contatto delle novità d’occidente», (S. C., p. 141).
(25) «Egli si attacca particolarmente al Giappone tradizionale e si lamenta sull’invasione di un modernismo industriale e guerriero che sfigura l’antico paese dei samurai».
(26)  «In ciò che ha a che fare con l’orientamento, la pazienza, e l’esattezza, questi piccoli giapponesi non potevano che eccellere».
(27)  «[…] ci si meraviglia soltanto che essi non abbiano inventato, dei millenni prima di noi, tutto ciò con cui si destreggiano oggi come dei virtuosi».
(28) «Verrà un tempo in cui la terra sarà molto noiosa, per i suoi abitanti, quando l’avremo resa tutta uguale da un capo all’altro, e non si potrà più nemmeno tentar di viaggiare per svagarsi un poco…», (S. C., p. 7).

Bibliografia 

· Loti P., Madame Chrysanthème, Flammarion, 1990. 
· Said E. W., Orientalismo, Feltrinelli, UE, Saggi, Milano, 2001. 
· Todorov T., Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, Paperbacks, Torino, 1991. 
· Vercier B., “Préface”, in Loti P., Madame Chrysanthème, Flammarion, Paris, 1990. 

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1 commento:

  1. Questo saggio si collega ad altri già editi da CriticaMente e ad un altro che sarà fruibile entro l'estate.
    Ringrazio Federico Sollazzo per avere sempre sostenuto il mio lavoro con queste pubblicazioni a me preziose e, mi auguro, utili e interessanti per i lettori.

    Grazie,
    Erwin

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