martedì 24 marzo 2009

Confronti e proposte


di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il tema del lavoro è uno dei temi fondamentali della vita dell'uomo e, ovviamente, lo è, con tutte le sue peculiarità, ancora oggi. Per vivere con consapevolezza questo aspetto così determinante delle nostre esistenze, può essere utile tenere presenti le coordinate concettuali che due importanti pensatori ci hanno fornito: Karl Marx ed Herbert Marcuse.
Per comparare le loro prospettive si deve necessariamente partire dalla considerazione del diverso contesto storico nel quale vissero. Marx visse nel XIX secolo, assistendo quindi alla prima rivoluzione industriale, ovvero a quel processo d'industrializzazione che modificò radicalmente le caratteristiche significative dell'organizzazione sociale. La rivoluzione industriale non soltanto mutò l'organizzazione del lavoro basata in passato su una massa di processi lavorativi isolati ed eterogenei, sull'attività saltuaria di famiglie contadine che lavoravano per conto di un mercante capitalista, e sulle prestazioni di una schiera dispersa di artigiani che producevano determinati articoli su commissione dei propri clienti. Essa cambiò anche (con il divorzio fra proprietà dei mezzi di produzione e produttore diretto, con l'accentramento della manodopera salariata in un unico luogo di lavoro, e con l'impiego sistematico e intensivo di macchine utensili azionate da forza motrice rivolto alla produzione di beni per il mercato) il carattere complessivo dell'economia e del sistema sociale, i rapporti fra città e campagna, le condizioni demografiche e ambientali, la psicologia collettiva. In tale conteso Marx evidenziò la stratificazione della società in classi, lo sfruttamento lavorativo ed esistenziale (dato che, per Marx, il lavoro è una categoria ontologica: l'uomo investe in esso le sue facoltà psico-fisiche per realizzare un qualcosa che, derivando direttamente da quelle capacità psico-fisiche, è parte della propria esistenza) della classe più debole (il proletariato), che rappresenta il soggetto rivoluzionario, inevitabilmente determinato dalle circostanze storico-sociali all'interpretazione delle quali Marx applica la sua personale concezione dell'evoluzione del genere umano. Infatti, usando la sua visione della storia dell'uomo come una continua evoluzione della lotta di classe, per studiare le leggi di movimento della società capitalistica, Marx concepì la rivoluzione (intesa come un'azione mirante a introdurre nell'organizzazione sociale profonde trasformazioni nella distribuzione della ricchezza, del potere e del prestigio sociale) come il risultato ineluttabile della contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i vecchi rapporti di produzione; la rivoluzione proletaria avrebbe realizzato l'abbattimento di ogni forma di sfruttamento e l'affermazione di un ordine sociale "umano". In questa concezione la rivoluzione è una sorta di semplice accelerazione del processo, destinato comunque a compiersi, di adattamento dello stato politico allo stato sociale.
Marcuse è invece vissuto nel XX secolo, quello dell'automazione, intesa come l'evoluzione della meccanizzazione: nel processo produttivo meccanico è necessaria la presenza dell'operatore umano, in quello automatico la presenza dell'uomo è limitata ad una supervisione del sistema; egli risulta quindi inserito nel sistema produttivo quale semplice anello di congiunzione tra lo strumento di misura e l'organo di regolazione della macchina (l'uomo è chiamato, per così dire, a colmare i vuoti formatisi tra le varie "isole" automatizzate). I primi successi ottenuti portano a pensare che l'uomo possa sottrarsi al processo produttivo, dedicandosi solo alla programmazione dello stesso, ma un esame più attento evidenzia un sottile asservimento dell'uomo alla macchina e al suo ritmo, alle sue logiche; l'uomo si trova così ad essere accoppiato agli strumenti tecnologici ed al tipo di razionalità strumentale che da essi deriva. Marcuse non interpreta la storia marxianamente come un susseguirsi inevitabile di classi sociali al potere, nel quale il soggetto rivoluzionario è già costituito dalla situazione storica (esso è sempre la classe sfruttata), bensì per Marcuse la storia è un prodotto umano che non è sottomesso ad alcuna legge prestabilita. Esaminando la civiltà dell'automazione da questa prospettiva Marcuse scorge nuovi problemi (produzione e consumo di massa di beni concreti e di valori immateriali; introiezione dei mezzi di controllo con conseguente illibertà dell'individuo; incapacità di pensare le alternative), nuove possibili soluzioni (riscoperta dell'Alta Cultura e dell'Arte come immaginario del possibile, come dimensioni intrinsecamente connesse e opposte alla razionalità vigente, come elementi nascenti all'interno dell'esperienza quotidiana sovvertendola, estraniandola dall'interno), ed un nuovo soggetto che possa incarnare le alternative (tutti coloro che, per qualsiasi motivo, ancora non risultano assoggettati al sistema).

L'attuale modo di essere del potere, infatti, è quello di un sistema economico-politico e produttivo talmente dilatato che non è più possibile trovare in esso un'autorità alta con la quale relazionarsi. Ma nella sua espansione, questa sovranità senza sovrano, trova dei limiti nelle "differenze", in tutti coloro che differiscono dal sistema costituendone quindi il limite. Dunque se per Marx era di fondamentale importanza fare acquisire al proletariato una coscienza di classe, per Marcuse è essenziale fare acquisire a chiunque una coscienza di sé e delle proprie condizioni d'esistenza, così da fornire a tutti dei nuovi strumenti di critica e contemporaneamente organizzare l'azione di chi già si oppone al sistema, dato che per Marcuse non preesistono i soggetti storici rivoluzionari, bensì essi devono essere costituiti. A tale proposito è interessante notare una significativa differenza tra la concezione marxiana e quella marcusiana di "classe": per Marx una classe sociale è costituita dall'insieme delle persone accomunate dalle stesse condizioni materiali di vita, dalle quali derivano comuni necessità e comuni rivendicazioni; per Marcuse, invece, una classe è un insieme di persone unite (indipendentemente dalle condizioni materiali di vita) da una medesima forma mentis, ovvero, da un atteggiamento critico nei confronti dello status quo e costantemente rivolto all'immaginazione delle realistiche alternative, e tale atteggiamento critico nei confronti dell'esistente e di apertura al possibile "non ancora", può (e per Marcuse deve) essere praticato da chiunque. A tal proposito Marcuse parla di outsiders, ovvero di tutti coloro che, indipendentemente dalle loro condizioni materiali d'esistenza, risultano essere mentalmente non integrati nel sistema, non assorbiti da esso, dalle sue logiche efficientiste, produttive e consumistiche, dalla sua razionalità calcolante e strumentale, dalla sua industria del divertimento (che intrattenendo plasma le menti), dai suoi falsi valori e dai suoi bisogni inautentici (percepiti però ormai come irrinunciabili). Ma attenzione: il vero outsider non è colui che rifiutando i principi del sistema, si tiene al di fuori dello stesso; costui sarebbe solamente un emarginato sociale. Il vero outsider è colui che sfruttando le logiche del sistema riesce ad insinuarsi dentro di esso, andando ad occupare posizioni
di prestigio e di rilievo, una volta raggiunte le quali può, sfruttando il potere che ne deriva, emanare, irradiare valori alternativi a quelli vigenti. Questa è, per chi ne è all'altezza, la sfida della contemporaneità: "scendere dalla torre d'avorio e sporcarsi le mani" per inserirsi all'interno del sistema, senza però farsi corrompere dalle sue seduzioni a buon mercato e a portata di mano, mantenendo quindi sempre un intimo atteggiamento critico nei suoi confronti, per poi, una volta collocati stabilmente dentro di esso, contribuire a mutarlo dall'interno (unica possibilità di autentico cambiamento).
Nonostante queste differenze, il tratto che accomuna i due pensatori è la concezione della forza lavoro non come una mera forza produttiva, bensì come una vera e propria
vis creativa che il capitalismo vorrebbe assorbire nel capitale ma che invece risulta irriducibile e indipendente dal capitale stesso. Il capitale tende all'accumulazione del prodotto-oggetto di lavoro, cioè del lavoro morto, mentre il lavoro è essenzialmente vita, vivacità suprema, potenza che eccede la realtà data. Dunque il capitale è un prodotto del lavoro vivo ma non coincide con esso, ed il pluslavoro impedisce la liberazione della nostra anima estetica. Infine non bisogna mai dimenticare che il lavoro è un'attività dell'individuo sociale, sempre inserito in una moltitudine dalla quale nessuno mai può estraniarsi; il contributo che un pensiero critico può fornire in tal senso, può essere proprio quello di evidenziare i condizionamenti culturali della moltitudine nella quale siamo inseriti.
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lunedì 23 marzo 2009

Manifesto per un progetto possibile

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Originariamente nata come una riflessione vertente sul concetto di totalitarismo, sulle sue cause e conseguenze e sulla sua possibile definizione, il pensiero si è poi (quasi inevitabilmente) espanso, allargandosi a quelle tematiche che costituiscono la naturale prosecuzione di quella prima riflessione. Il concetto di totalitarismo, infatti, richiama ineluttabilmente quello del suo, almeno apparente, opposto: la democrazia; sicché, il ragionamento sull’uno apparirebbe menomato senza quello sull’altra. A sua volta, la riflessione sulla democrazia apre il campo alle più recenti argomentazioni etiche, volte alla ricerca di una pacifica, armoniosa e soddisfacente convivenza umana, al punto tale che il passaggio dall’analisi dell’una (la democrazia) a quella delle altre (le nuove correnti etiche), appare come la declinazione dello stesso discorso, quello sulla convivenza umana, nei suoi due complementari versanti: quello politico e quello morale. Scopo di queste riflessioni, è quello di tentare di far confluire questo percorso fatto di categorie concettuali necessariamente inanellate le une alle altre, nella proposta di uno stile di vita, sinteticamente definibile con la formula di “sintesi disgiuntiva”, teso all’individuazione di un possibile percorso di pacificazione sociale, basato su di una “moralità minima condivisibile”, affondante le sue radici nella biologia umana e nelle emozioni.

La scelta del totalitarismo (inteso nel suo profilo teorico e pratico, filosofico e storico) come punto d’avvio del ragionamento trova la sua motivazione nel fatto che esso rappresenta la prima forma di regime sociale repressivo a darsi in un momento storico (l’inizio del XX sec.) in cui tale repressione non risulta più motivabile e comprensibile nei termini di lotta per la sopravvivenza; conseguentemente, le motivazioni di una simile oppressione e coercizione necessitano di essere chiarite. Ora, confrontando le analisi di Hannah Arendt (concentratasi quasi esclusivamente sul modello totalitario del nazionalsocialismo), con gli studi di “teoria critica della società” della prima Scuola di Francoforte (sostanzialmente riconducibili ad autori come Theodor W. Adorno, Max Horkheimer ed Herbert Marcuse, osservanti prevalentemente le occidentali società del cosiddetto “benessere”), si nota come la prima si dedichi alla descrizione delle caratteristiche pratiche, delle manifestazioni storiche tramite le quali si è mostrato il fenomeno del totalitarismo novecentesco (imposizione violenta di un’ideologia sulla realtà, presenza di un partito unico, controllo dei mezzi di comunicazione ed eliminazione fisica dei dissidenti), comprendendo in esse anche le “manifestazioni psicologiche”, come la perdita della “facoltà di giudizio”, mentre i secondi si concentrino sulle ragioni filosofiche che rendono possibile un qualsiasi sistema repressivo (soffocamento delle facoltà psico-fisiche umane, trionfo della razionalità strumentale, del consumismo e dell’industria del divertimento e dell’informazione, “unidimensionalità”), indipendentemente dalle modalità contingenti tramite le quali si manifesta tale repressività. Pertanto, l’integrazione di queste due diverse prospettive consente di osservare il fenomeno del totalitarismo/autoritarsimo nella sua totalità: gli studi arendtiani rivelano come il totalitarismo si è originariamente manifestato, quelli francofortesi in che cosa consista la sua essenza. Inoltre, continuando a seguire il percorso della riflessione filosofica occidentale sulle forme moderne e contemporanee della convivenza umana, si devono tenere presenti due autori italiani quali Pier Paolo Pasolini ed Antonio Negri che, seppure da punti di vista diversi (morale l’uno, politico l’altro), denunciano l’avvento di nuove forme di mali sociali che designano, rispettivamente, come l’era del “nuovo fascismo consumistico” e dell’Impero.
A quest’altezza del discorso, dopo avere identificato quella che è stata la malattia sociale par excellence dell’era contemporanea, ci si può dedicare all'osservazione della sua alternativa, formalmente identificata con il termine di democrazia, che racchiude in sé un’amplissima gamma di significati, sfumature e contenuti, per descrivere i quali si dovrebbe passare attraverso un determinato percorso di riflessione. Non casualmente, il primo passo ritengo debba consistere nel chiarire l’antico ed originario senso della pratica della democrazia, così come essa era vissuta nelle pòleis greche: condivisione di parole e azioni fra uomini, basata sul metodo della partecipazione della più ampia parte possibile dei cittadini ai processi decisionali e della persuasione, al fine, però, non di tanto di contribuire all’amministrazione della cosa pubblica, quanto piuttosto di lasciare nella storia un segno duraturo del nostro passaggio nel mondo; temi che ha nitidamente sviscerato la Arendt. Successivamente, penso si dovrebbe chiarire lo status che la democrazia dovrebbe darsi per potersi considerare tale: quello sinteticamente definibile come “società aperta”; termine coniato da Karl R. Popper. Infine, si dovrebbero tenere in considerazione le modalità con le quali, una volta venutasi a creare un’autentica democrazia, la si possa difendere da qualsiasi rischio degenerativo, in particolare da un pericolo endogeno: quello di una sua dissoluzione dall’interno; tema centrale nell’opera di Norberto Bobbio.
Ora, nella filosofia contemporanea le proposte relative all’edificazione di una società ideale (o quantomeno migliore di quella esistente) non si muovono esclusivamente su un piano politico, che abbiamo visto fare principalmente capo al termine di democrazia, ma anche su uno morale, imperniato su concetti chiave come, ad esempio, quelli di libertà, uguaglianza e giustizia. In tale versante del ragionamento l’accento è posto non tanto sui meccanismi politici regolanti la convivenza, quanto sul comportamento che ciascun uomo può adottare relativamente alle dinamiche della convivenza stessa; anche nell’analisi di tali questioni etiche è necessario seguire uno specifico percorso riflessivo. Innanzitutto, appare doveroso prendere le mosse dal movimento di “riabilitazione della filosofia pratica”: esso infatti ha rinnovato l’interesse della filosofia per le questioni giuridico-politiche, affrontate però non da una prospettiva “istituzionale”, bensì morale, inerente cioè al comportamento umano; lucide e puntuali sono in questo ambito le riflessioni di Hans-Georg Gadamer, Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas. Risulta poi interessante accostare fra di loro tre diverse correnti etiche che disegnano un arco concettuale che va da un estremo al suo opposto, ma non per questo contrario: l’individualismo, rimandante, ovviamente, a teorie liberali, il neocontrattualismo, che si pone come un tentativo conciliatorio fra differenti istanze morali, ed il comunitarismo, sorta di “alter ego” dell’individualismo, esaltante le caratteristiche di ogni singola comunità, in luogo di quelle di ogni singolo individuo; in questi ambiti i principali autori di riferimento sono, rispettivamente, Robert Nozick e Friedrich A. von Hayek, John Rawls, Alasdair MacIntyre e Charles Taylor. Infine, va concesso spazio anche a quei movimenti etici rimandanti a dei veri e propri stili di vita: la Naturphilosophie, che nasce come monito per le conseguenze delle azioni del moderno “Prometeo scatenato”, ed il pensiero dell’alterità, proposta di un nuovo modo di relazionarsi al prossimo; questioni affrontate, rispettivamente, da Hans Jonas e dal pensiero francese contemporaneo (Emmanuel Lévinas, Paul Ricœur e Jacques Derrida).
Si giunge così all’ultima fase della riflessione, quella propositiva, nella quale si vuole evidenziare come le speculazioni politiche e morali relative all’edificazione ed al miglioramento della società, per non collassare su loro stesse, necessitino di solide fondamenta antropologiche: solo a partire da una determinata immagine dell’uomo, si può costruire la dimora a lui più idonea. Si pone quindi il problema del chiarimento della costituzione antropologica elementare, basilare, contenente cioè quegli elementi che, relativamente all’essere umano, possono essere considerati universali. Ora, essendo l’uomo una sorta di allotropo empirico-spirituale, tali “universalizzabili” sono rintracciabili nella biologia (come sostiene Eugenio Lecaldano, proponente l’edificazione di un’etica su base biologica) e nelle emozioni (come afferma Martha Nussbaum, che vede nelle emozioni l’origine stessa dell’etica). In altre parole, ogni uomo è in possesso di necessità e capacità psico-fisiche, emozionali e fisiologiche, dalla cui soddisfazione dipende sia la sopravvivenza che la realizzazione di un’esistenza autenticamente appagante. Il riconoscimento di tutto ciò costituisce una sorta di collante morale, di etica minima condivisa, che, conseguentemente, cancella l’idea del pluralismo etico (ad una struttura antropologica basilare, corrisponde una possibile etica minima), ma non quella del pluralismo culturale, inteso come una pluralità di modi storicamente diversi, di realizzazione della stessa etica minima. Per decifrare un simile scenario, negli ultimi anni si è proposto di utilizzare lo strumento concettuale del multiculturalismo, il quale però sembra contenere in sé un pericolo ed un’imprecisione. Il pericolo, risiede nel fatto che il multiculturalismo sembra non rappresentare altro che la faccia liberale del fondamentalismo: entrambi condividono la visione della società come un sistema di ghetti e di logiche identitarie, mediabili solo tramite la violenza fisica e/o la giurisprudenza. L’imprecisione, consiste nella descrizione inadeguata che viene offerta dell’attuale scenario globale (e globalizzato), il quale risulta meglio descrivibile con il termine di “interculturalismo”: correntemente, infatti, non si ha l’esistenza di una cultura accanto ad un’altra, quanto la presenza di una cultura all’interno di un’altra. Il confronto fra culture diverse deve allora svolgersi all’insegna di un altro concetto, ovvero quello di una sorta di “sintesi disgiuntiva”, in cui proprio l’inassimilabilità delle identità costituisce il trait d’union fra le stesse. In questa nuova prospettiva l’idea di tolleranza appare antiquata e pertanto sostituita da quella di rispetto: solo rispettando l’altro si può innescare con lui un’autentica comunicazione in cui l’identità culturale di ciascuno viene contaminata, inquinata e quindi arricchita da elementi esogeni. Verrebbe così ad essere preservata sia l’unicità e, conseguentemente, l’universalità dell’etica che la pluralità (ma non per questo l’incomparabilità) delle culture.

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venerdì 20 marzo 2009

Benedetto Profilattico

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Nel suo viaggio in Africa, in corso proprio in questi giorni, Papa Benedetto XVI ha affermato, riferendosi all’AIDS, una delle più diffuse e gravi malattie veneree al mondo, presente su larga scala in tutti i cosiddetti Paesi del Terzo Mondo, in particolar modo nel continente africano, che tale malattia è «una tragedia che non può essere risolta solo con il denaro (…) né attraverso la distribuzione di preservativi che persino aggravano il problema» bensì solo con un «risveglio spirituale e umano». Di fronte a tali affermazioni, le mie modeste capacità di comprensione vacillano, non riuscendo proprio ad afferrare alcuni punti.
Primo: la soluzione risiederebbe in un «risveglio spirituale e umano». Suppongo che con tale frase il Papa si riferisse alla pratica dell’astensione sessuale, ed allo svolgimento della stessa attività sessuale solo per fini procreativi. Ma l’astensione è l’errore speculare a quello dell’avere comportamenti sfrenati e promiscui, in entrambi i casi, infatti, si vive la propria sessualità in maniera disequilibrata e, quindi, inevitabilmente, inconsapevole (non a caso, chi vive la propria sessualità in maniera squilibrata, per eccesso o per difetto, è soggetto molto più di chiunque altro a forme di distorsione della propria libido); quello a cui bisogna mirare, allora, è una forma equilibrata e consapevole di vivere la propria sessualità. Ma, ad ogni modo, anche qualora si volesse praticare l’astensione fino al suggellamento ufficiale della propria unione, ciò non mette certamente al riparo dal contrarre malattie veneree: il virus dell’HIV non fa discriminazioni fra coppie ufficiose ed ufficiali, tutt’altro, esso è molto democratico, accettando ospitalità da parte di chiunque, uomini, donne, single, fidanzati, sposati, bianchi, neri, gialli, cattolici, musulmani, europei, africani, belli, brutti, alti, bassi… e perfino bambini. Veniamo così ad un altro punto che le mie limitate capacità non mi consentono di comprendere.
Secondo: il problema dell’AIDS non si risolve «attraverso la distribuzione di preservativi che persino aggravano il problema». Certo, i preservativi non risolvono il problema (per risolverlo occorrono ben altri strumenti), ma sicuramente arginano la diffusione della malattia, cosa che sarebbe già un primo importante risultato; non credo che un neonato che nasce sieropositivo (la stessa cosa è valida, seppur in termini diversi, anche per gli individui adulti) trovi consolazione nella consapevolezza del fatto che, al momento del concepimento, i suoi genitori non hanno infranto alcun precetto religioso. Insomma, chi è che aggrava il problema, rendendosi corresponsabile della diffusione dell’AIDS, con tutte le tragiche conseguenze che esso comporta? Il preservativo, o chi incita al suo non utilizzo (personalmente avrei dei problemi a prender sonno sapendo di essere potenzialmente corresponsabile dell’infezione anche di una sola persona – ma questi sono problemi della mia mediocre coscienza terrena)? Tuttavia è innegabile che esso, il preservativo, non possa da solo risolvere il problema. E giungiamo così ad un ulteriore punto che le mie ristrette risorse intellettuali non mi permettono di comprendere.
Terzo: l’AIDS è «una tragedia che non può essere risolta solo con il denaro». Che non possa essere risolta solo con il denaro lo capisco, infatti, come abbiamo visto, sono indispensabili anche i preservativi, però anche il denaro può aiutare molto ad incamminarci sulla via della guarigione. La ricerca scientifica, infatti, è fortemente penalizzata dalla scarsità delle risorse economiche a sua disposizione (fra Governi che tagliano i finanziamenti pubblici, e case farmaceutiche che non investono per creare un prodotto che poi avrebbe un numero limitato di acquirenti; se, infatti, esistesse già un farmaco anti HIV, esso avrebbe il suo principale bacino di utenti nei Paesi del Terzo Mondo, ma le popolazioni di quei Paesi non hanno denaro da spendere in medicine), allora, non capisco perché un’istituzione religiosa che sostiene di avere a cuore il bene di ogni singola persona, e che dispone di ingenti risorse economiche, probabilmente superiori a quelle di parecchi Stati (a proposito, qualcuno sa a chi viene assegnato l’8 per mille delle scelte inespresse nella dichiarazione dei redditi?), non ne destini una cospicua parte, anche se a fondo perduto (la Chiesa non è una S.p.A., no?), ad una ricerca scientifica finalizzata alla creazione di un farmaco che possa salvare le vite di miliardi di persone.
Ma questi, come ripeto, sono i pensieri di chi non riesce ad elevarsi a certe vette di comprensione, e se qualcuno volesse provare ad illuminarmi, è sempre il benvenuto.

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martedì 17 marzo 2009

Othello, da Shakespeare a Verdi passando per Muti

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Lo scorso 6 Dicembre ho avuto l’opportunità di assistere alla prima dell’Otello diretto da Riccardo Muti presso il Teatro dell’Opera di Roma che, nonostante i tagli subiti a causa delle ultime disposizioni governative che riducono i finanziamenti per le infrastrutture e le attività culturali, riesce ancora ad offrire delle rappresentazioni di altissima qualità. L’aver assistito all’opera musicata da Giuseppe Verdi, su libretto di Arrigo Boito, e l’aver riletto la tragedia originale di William Shakespeare, ha suscitato in me delle osservazioni che mi fa piacere condividere con chiunque vi sia interessato.
Non intendo qui né riportare l’ennesimo riassunto della trama della tragedia, né proporre un’ulteriore interpretazione manualistica, ma solo mettere in questione alcuni aspetti che mi hanno personalmente e particolarmente colpito, ovvero: perché in un’opera nella quale nulla è lasciato al caso ed anche le virgole hanno un significato, l’autore (mi riferisco a quello originale) disegna un così particolare finale? Perché nessuno dei personaggi ottiene ciò che desidera? E perché Desdemona, non solo non ottiene ciò che desidera, ma addirittura trova la morte?

Nessuno dei personaggi ottiene ciò che desidera, si diceva, ed infatti, Roderigo, che desiderava impossessarsi del corpo di Desdemona, non lo ottiene, morendo sotto la spada di Cassio.

Cassio, che desiderava dedicarsi ai piaceri mondani della gola e della lussuria, viene investito della carica di Governatore (succedendo ad Otello), che lo costringerà ad un comportamento responsabile, limitando così le sue mondanità e quelle di Bianca, sua amante e femminile alter ego; da notare infatti che proprio l’uccisione di Roderigo per mano di Cassio simboleggia il passaggio dello stesso Cassio da una forma ad un’altra di schiavitù: dall’assoggettamento alla lussuria, incarnata da Roderigo, che Cassio allontana da sé uccidendolo, all’assoggettamento al potere, che riduce Cassio ad una funzione (quella di Governatore) dello stesso.

Jago, che desiderava impadronirsi del potere, perde anche quello che aveva in qualità di Alfiere di Otello, trascinando in rovina anche la moglie Emilia, suo corrispettivo femminile, invaghita anch’essa del potere, come dichiara quando, parlando con Desdemona di tradimento, o meglio, di prostituzione finalizzata al raggiungimento del potere, afferma, allibendo la stessa Desdemona: «Il mondo è una cosa enorme! E’ un grande compenso per un piccolo peccato! (…) Per Dio, certo che non farei una cosa del genere per un anello di poco prezzo o qualche pezza di lino o dei vestiti, delle gonne dei cappelli o altri miseri regali. Ma per essere padrona del mondo! Eh… Chi non farebbe cornuto il proprio marito per farlo diventare un re?» (Atto IV, scena III – Tragedia), dando quindi tacitamente per scontato che, poiché per chiunque, proprio marito compreso, la massima aspirazione della vita è quella di impossessarsi del potere, egli accetterebbe di buon grado di portare le corna, a patto che vi possa adagiare sopra una corona (da notare, inoltre, come l’alter ego femminile di Cassio – Bianca – sia raffigurata come sua amante, maschera idonea a rappresentare l’assoggettamento dei due alla lussuria, ed alle figure retoriche che ne derivano, mentre l’alter ego femminile di Jago – Emilia – sia raffigurata come sua moglie, veste adatta a rappresentare l’assoggettamento dei due al potere, ed alle figure istituzionali che ne derivano).

Otello, che desiderava essere riconosciuto nel presente e ricordato nel futuro come un valoroso combattente ed un integerrimo uomo di potere (Desdemona, infatti, per lui, non è altro che una funzione della sua immagine; per questo egli non può tollerare d’essere ingannato da lei: non per la delusione affettiva che ne ricaverebbe, ma per il danno che un simile gesto da parte di lei arrecherebbe alla sua pubblica reputazione; quando infatti sospetta d’essere ingannato da Desdemona, ciò che lo tormenta è che: «Della gloria d’Otello è questo il fin» (Atto II, scena V – Libretto) e non altro), è talmente calato nella funzione sociale che svolge da non essere più in grado di staccarsi dal personaggio che interpreta, adottandone le regole procedurali anche nella sua vita intima, al punto tale che, offuscato da Jago a proposito dell’onestà di Desdemona, anziché parlare di ciò con la propria moglie, opta per una strategia investigativa, come se stesse affrontando una problematica politica: «Pria del dubbio l’indagine, dopo il dubbio la prova, Dopo la prova (Otello ha le sue leggi supreme) Amore e gelosia vadan dispersi insieme» (Atto II, scena III – Libretto), e passerà ai posteri come un ingenuo omicida.

Desdemona, infine, che desiderava “semplicemente” amare ed essere amata da un essere umano con il quale generare un’intimità, un’affinità elettiva ineguagliabile da qualsiasi altra interazione umana, non solo non raggiunge tale risultato ma, ricercandolo, trova addirittura la morte.

Ma perché, in un’opera nella quale ogni virgola ha il suo specifico significato, accade che nessuno dei personaggi trovi ciò che cerca? A mio avviso si deve fare una distinzione fra tutti i personaggi, Desdemona esclusa, da un lato, e Desdemona, appunto, dall’altro.

Tutti i vari personaggi infatti, ad eccezione della protagonista femminile, condividono, pur nelle loro diversità, un tratto comune: tutti rivolgono il loro amore non a qualcuno ma a qualcosa. Roderigo, Cassio e Bianca, ai piaceri mondani; Jago ed Emilia, al potere; Otello al proprio prestigio sociale, alla propria immagine, dunque a se stesso, reificandosi, inevitabile conseguenza dell’egocentrismo, palesemente manifesta in quella già citata battuta nella quale Otello parla di se stesso in terza persona (come se uscisse da sé, e dall’esterno si guardasse come se fosse una cosa): “Otello ha le sue leggi supreme”. Sebbene nella vita raramente si verifichino degli esiti romanzeschi, come quelli descritti in un’opera d’arte, il contenuto che da queste vicende può trarsi è fin troppo manifesto: la felicità non è portata dall’amore verso qualcosa (né da quello verso se stessi, visto che esso ci porta ad auto-ridurci a cosa), materiale o immateriale che essa sia.

Ma Desdemona non è portatrice dello stesso distorto modo dì vivere l‘amore di tutti gli altri personaggi, essa infatti non ama qualcosa bensì qualcuno (Otello), eppure ciò non la mette al riparo da un esito tragico. Evidentemente, quella di amare non qualcosa ma qualcuno è solo una conditio sine qua non, una condizione necessaria ma non sufficiente per conquistare la felicità. Evidentemente, anche Desdemona ha commesso un errore nel suo modo di vivere l’amore; ma quale? Lo dice, divenendone consapevole quando ormai sarà troppo tardi, ella stessa: «(…) alla sua fama e al suo valore ho consacrato il mio cuore e la mia felicità» (Atto I, scena III – Tragedia), «Ed io t’amavo per le tue sventure» (Atto I, scena III – Libretto). Desdemona, dunque, è innamorata della fama, del valore e delle sventure di Otello, e non di Otello come essere umano; ella prova delle forti passioni nei confronti di un uomo così prestigioso, potente, valoroso e che ha saputo ovviare alle sfortune della vita, ma confonde queste passioni con l’amore, tutt’altro sentimento rispetto ad una qualsiasi altra passione, per quanto intensa essa sia. Per questo, quando prende consapevolezza di tutto ciò, non può incolpare nessun’altro che se stessa per la sua tragica fine (avendo confuso passioni di genere diverso per amore, ed essendosi così donata a chi non avrebbe dovuto donarsi): quando è infatti già irrimediabilmente agonizzante per essere stata soffocata da Otello, ed Emilia le chiede chi abbia commesso tale delitto, con l’ultimo filo di voce risponde: «Nessuno; io stessa» (Atto V, scena II – Tragedia; Atto IV, scena III – Libretto). E la sua morte è quella alla quale, seppur non fisicamente ma intellettualmente, moralmente ed emotivamente, ciascuno si consegna quando compie quel tipo di sbaglio emozionale, non riuscendo a decifrare lucidamente le proprie dinamiche emotive interiori.

La grande arte e l’alta cultura sono delle porte d’accesso alla nostra auto-comprensione, poiché descrivono le dinamiche e i temi portanti che erano, sono e sempre saranno presenti all’interno dell’animo umano e che, a differenza dell’andamento rettilineo dello sviluppo scientifico, si sono proposti, si ripropongono e sempre si riproporranno uguali a loro stessi là dove, in ogni tempo e sotto ogni clima, è presente un essere umano.


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