martedì 23 giugno 2009

Pensieri (im)politici

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Gli uomini dei secoli democratici amano le idee generali, perché queste li dispensano dallo studiare i casi particolari
A. de Tocqueville, La democrazia in America

La politica e la conseguente attività di politico è oggi considerata una professione, al pari di altre; è un bene considerarla tale, o forse la politica dovrebbe essere, di fatto, accessibile a chiunque (avendo le basilari conoscenze dei meccanismi civici, ormai indispensabili nell’amministrazione di un Paese) desideri accedervi? Cosa succederebbe se scomparisse la figura del "politico di professione"?

Egli, insieme ai partiti, rappresenta la causa della trasformazione della politica, da azione ad amministrazione, la quale si esplica non tramite la condivisione di parole e azioni, ma attraverso delle precise tecniche, note solo ai professionisti della politica. L’agorà si muta così in "Palazzo", testimoniando il fatto che il primo pericolo che ogni regime politico corre è quello di una degenerazione dall’interno. Tale disintegrazione del sistema politico ne mina la legittimità, poiché dilata le distanze fra i cittadini e gli amministratori del potere, ponendo a quelli dei dubbi sull’autorità governativa di questi; si generano così delle tensioni sociali che, non di rado, sfociano in episodi di violenza. Ma, come ha notato Hannah Arendt, per contestare e contrastare la degenerazione della politica esiste un’alternativa alla violenza: la disobbedienza civile(1).

La disobbedienza civile esprime la posizione di un gruppo di persone accomunate da una medesima opinione che, nonostante sia, o proprio in quanto è un’opinione minoritaria, sentono il desiderio di manifestare. La disobbedienza civile nasce da un accordo reciproco fra coloro che la praticano e tale accordo non è assimilabile né ad una sorta di patto religioso né laico. Nel primo caso infatti, i partecipanti dovrebbero obbedire ad ogni cosa che venisse loro rivelata da un’autorità superiore; nel secondo, dovrebbero rinunciare ai propri diritti, affidandosi ad un potere politico assoluto; in entrambi i casi stipulerebbero un patto verticale. La disobbedienza civile è invece assimilabile, per la Arendt, ad una sorta di contratto sociale orizzontale, simile a quello descritto da John Locke nei Due trattai sul governo. Esso infatti produce un accordo fra pari, che si impegnano reciprocamente fra loro, originando una societas (nel senso latino di alleanza) orizzontale che costituisce la base per l’istituzione di un governo, base che, anche qualora il governo dovesse sciogliersi, rimarrebbe intatta(2). Inoltre, la disobbedienza civile, rappresenta una possibilità di azione politica diretta in un mondo in cui tale possibilità è limitata all’elezione di rappresentanti; disobbedendo civilmente si può (ri)assaporare il gusto di una vita pubblica fatta di condivisione di esperienze e di relazioni con gli altri. La disobbedienza civile offre, insomma, la possibilità di fare attivamente politica, trascendendo i limiti della rappresentatività della quale, però, la Arendt riconosce la necessità, dovuta alle ampie dimensioni delle società attuali. Quello di cui, infatti, ella va in cerca è un modo per unire le esigenze della politica contemporanea, con lo spirito della Grecia classica, ovvero «un principio di organizzazione completamente diverso, che ha inizio dal basso, continua verso l’alto e alla fine porta a un Parlamento»(3).
E’ per queste ragioni che la Arendt, fin dagli anni Quaranta, ha proposto una soluzione politica della disputa israelo-palestinese. Non è però uno Stato binazionale, ebraico ed arabo, ciò di cui la filosofa tedesca auspica l’avvento, esso infatti continuerebbe a propinare l’idea di un “blocco” israeliano contrapposto ad uno palestinese, costituendo così la trasposizione parlamentare di quegli scontri extra-parlamentari che vorrebbe risolvere: lo Stato israeliano e quello palestinese si porrebbero, l’uno nei confronti dell’altro, in un atteggiamento di chiusura o, nella migliore delle ipotesi, di filantropica tolleranza. Al contrario, una Federazione costringerebbe i diversi soggetti politici che la compongono a dialogare fra loro (ovvero a condividere parole e atti in uno spazio comune) al fine di edificare un’unica e comune realtà politica: «Una vera federazione è composta da diversi elementi nazionali chiaramente distinti, o da altri elementi politici, che insieme organizzano lo Stato»(4) La Federazione, quindi, dovendo pervenire ad un’unica e condivisa definizione della propria costituzione, non si limita ad affiancare fra loro diversi soggetti politici (come nel caso di uno Stato plurinazionale), ma obbliga questi ultimi ad interagire per giungere ad un accordo sui propri principi universali. Portando avanti tali considerazioni negli anni Quaranta, la Arendt rintraccia negli Stati Uniti d’America, nell’ Unione Sovietica e nel Commonwealth britannico, i più rilevanti esempi di Federazione. Non deve pertanto stupire il fatto che il modello della Federazione venga proposto come modello da applicare anche in Europa (precorrendo così il sorgere dell’attuale Unione Europea), cioè in quel continente in cui


La vittoriosa avanzata degli eserciti alleati, la liberazione della Francia e la continua disgregazione della macchina militare e del terrore tedesca hanno riportato alla luce la struttura originaria di questa guerra, che ha avuto inizio come guerra civile intereuropea(5)

Se la Seconda Guerra Mondiale può essere interpretata, almeno nelle sue origini, come una guerra civile, possono allora, a maggior ragione, essere così interpretati tutti i conflitti dell’odierno mondo globalizzato; diviene pertanto ancora più degno d’attenzione il modello politico federativo. In esso, dovremmo oggi chiederci, se e come sarebbe possibile realizzare una democrazia che sia confronto con gli altri, senza travolgerli o esserne travolti, cioè senza fondersi con gli altri, ma mantenendo la propria individualità all’interno di un paradigma politico condiviso e unificato, ma non per questo omogeneo.
E’ anche da ricordare come la Arendt più matura (quella cioè successiva a Le origini del totalitarismo ed a Vita activa), trovi una conferma delle proprie fondamentali linee di riflessione, nel pensiero politico di Alexis de Tocqueville(6). Anche per il pensatore francese infatti la natura della politica, in generale, e quella della democrazia, in particolare, risiede nella libertà di autodeterminare le proprie azioni e, afferma Tocqueville, la possibilità di fare ciò, dedicandosi alla politica, è, nell’America da lui osservata, garantita a tutti i cittadini (e non solo a chi risulta esonerato dallo svolgimento di attività pre-poltiche), grazie all’“uguaglianza delle condizioni”:

Senza fatica constatai la prodigiosa influenza che l’eguaglianza delle condizioni esercita sull’andamento della società; essa dà allo spirito pubblico una determinata direzione, alle leggi un determinato indirizzo, ai governanti nuovi principi, ai governati abitudini particolari […] più studiavo la società americana, più vedevo nell’eguaglianza delle condizioni la forza generatrice da cui pareva derivare ogni fatto particolare(7)

Forse è proprio cercando di mediare, sotto l’influsso di Tocqueville, fra una politica elitaria, aristocratica, ed una “popolare”, dal basso, che rilasciando un’intervista nel 1972 allo scrittore Adelbert Reif, la Arendt ebbe a dire:

Non è affatto necessario che tutti quelli che vivono in un paese siano membri di un consiglio. Non tutti vogliono o debbono preoccuparsi degli affari pubblici. In questo modo è possibile un processo di autoselezione per mettere assieme una vera élite politica nel paese. Chiunque non è interessato agli affari pubblici si accontenterà semplicemente di vedere che siano decisi senza di lui. Ma a ogni persona deve essere data la possibilità di formare un nuovo concetto di Stato(8)

1) L’importanza, agli occhi della Arendt, di queste due forme di contestazione è comprensibile sin dai titoli di saggi come: La disobbedienza civile, e Sulla violenza, in Politica e menzogna, SugarCo, Milano 1985.
2) E’ interessante notare che, da questa prospettiva, la societas rappresenta per la politica moderna quel sostrato indispensabile che, per la politica antica, era dato dalla sfera privata.
3) H. Arendt, Pensieri sulla politica e la rivoluzione, in Politica e menzogna, cit., p. 281.

4) H. Arendt, Antisemitismo e identità ebraica, Comunità, Torino 2002, p. 89; poco prima (pp. 66 e 86) viene criticamente ricordato come il programma di uno Stato binazionale sia stato proposto, per la prima volta, da Judah Leon Magnes, fondatore della Yichud; sui rapporti della Arendt con la cultura ebraica cfr. F. G. Friedman, Hannah Arendt, Piper, München-Zürich 1985.

5) Ibidem, p. 121.

6) Cfr. H. Arendt, Politica e menzogna, cit.; bisogna però rilevare come la Arendt non si confronti col secondo libro della Democrazia in America, quello cioè che sottolinea il carattere onnipervasivo del potere amministrativo, l’apatia dei singoli divenuti folla e l’abrutimento sia dei lavoratori salariati che dei capitalisti.

7) A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, UTET, Torino 1968-1969, 2 voll, vol. 2, p. 15; sull’argomento cfr. G. Bedeschi, Il pensiero politico di Tocqueville, Laterza, Roma-Bari 1996.

8) H. Arendt, Pensieri sulla politica e la rivoluzione, in Politica e menzogna, cit., p. 282.


Creative Commons License
Questa opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons.

Nessun commento:

Posta un commento