domenica 19 aprile 2009

Totalitarismi di inizio Novecento

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

L’uomo non può essere libero se non sa di essere soggetto alla necessità, perché la sua libertà è sempre guadagnata nei suoi tentativi, mai pienamente riusciti, di liberarsi dalla necessità
H. Arendt, Vita activa

La lotta per la sopravvivenza è un fenomeno caratterizzante l’intero regno della vita vegetale e animale, dunque anche l’uomo. Ma se nei secoli precedenti al XX tale fenomeno era motivato dalla penuria delle risorse per la sopravvivenza, dal XX secolo in poi, almeno nei Pesi cosiddetti del Primo Mondo, la suddetta motivazione viene meno grazie ai progressi scientifico-tecnologici; ciononostante è, paradossalmente, proprio in quei Paesi e in quel periodo che compaiono i primi regimi totalitari. Per questo il totalitarismo è stato scelto come l’emblematico punto d’avvio di un lavoro teso al raggiungimento del suo opposto: la pacificazione sociale.

Per cercare di definire il fenomeno del totalitarismo nelle sue varie articolazioni e sfaccettature, è necessario investigarne le origini storico-filosofiche, l’humus che ne favorisce l’insorgere e gli eventuali “parametri” che ne consentono di riconoscere la presenza. A tal fine le analisi di Hannah Arendt, che fu tra i primi autori ad esaminare frontalmente l’argomento, costituiscono un imprescindibile punto di riferimento.

Nell’opera Vita activa la riflessione della Arendt raggiunge l’apice della critica della modernità, dando un più ampio respiro alle tematiche già affrontate nella precedente, e forse più nota, opera Le origini del totalitarismo, estremamente legata ai caratteri tipici del nazionalsocialismo. In Vita activa la Arendt compie un’analisi fenomenologica delle condizioni strutturali dell’esistenza umana, delle sue attività peculiari e delle dimensioni in cui queste si svolgono. Per la Arendt le attività fondamentali che caratterizzano la condizione umana sono il lavoro, l’opera e l’azione. Il lavoro costituisce l’insieme delle attività necessarie a garantire la sopravvivenza biologica e l’essere che lavora a questo scopo è definito come animal laborans(1); l’opera (che a differenza del lavoro non è prodotta dall’intero corpo in generale, ma specificatamente dalle mani(2)) è quella funzione tramite la quale l’uomo «fabbrica l’infinta varietà delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale»(3), e la figura a ciò corrispondente è quella dell’homo faber; l’azione, caratteristica esclusivamente umana non legata a mere necessità biologiche e/o istintuali, rappresenta la capacità di iniziare qualcosa che ancora non è in atto: «Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare […] mettere in movimento qualcosa»(4), e la massima azione umana è l’azione politica che inizia con la nascita ed è costituita da un insieme di relazioni dirette con gli altri, attuate senza la mediazione di oggetti materiali bensì tramite il linguaggio, che ne conserva anche la memoria grazie al racconto, l’azione manifesta quindi la pluralità del genere umano, il fatto che sulla Terra non ci sia l’uomo ma gli uomini(5).

Queste tre attività si collocano necessariamente all’interno di una fra le seguenti dimensioni: la sfera privata e lo spazio pubblico; dimensioni che però hanno ormai un significato distorto rispetto a quello autentico ed originale che, in passato, possedevano all’interno di quello che per la Arendt rappresenta un modello ideale di comunità: la pòlis greca al tempo di Pericle(6). In tale comunità, infatti, la sfera privata era percepita come una sorta di male necessario, ovvero come una limitazione della libertà personale a causa dello svolgimento del lavoro necessario per garantire la sopravvivenza, mentre lo spazio pubblico era vissuto come il “trionfo della libertà”, come un ambito autenticamente politico, inteso come quello spazio in cui era possibile agire e parlare insieme ad altri, lasciando un segno duraturo del nostro passaggio; attualmente invece, la sfera privata è vissuta come la sfera della privatezza del possesso (proprietà privata) e dell’intimità (privacy), e lo spazio pubblico si è ridotto nel sociale, inteso come la pubblicizzazione di temi che in passato erano privati (come gli eventi della nascita e della morte, ed il lavoro per la sopravvivenza che nel loro intervallo di tempo si svolge). Tali mutazioni sono avvenute a causa della proiezione del “sociale” sul “politico”: quella che era un’alleanza finalizza alla sola sopravvivenza (il sociale), si è sostituita all’interazione fra gli uomini finalizzata all’edificazione del mondo (il politico)(7). Conseguentemente la politica viene assorbita dal sociale, si ha un dominio del sociale al quale vengono delegati compiti che prima erano privati: le funzioni atte alla sopravvivenza. Questo processo di degenerazione dello spazio pubblico è stato causato, per la Arendt, dal cristianesimo (in particolare da Tommaso d’Aquino) e dal marxismo; entrambi hanno infatti alterato il significato greco dello spazio pubblico, riducendolo o a mera contemplazione e attesa dell’al di là, o alla lotta per l’edificazione di una determinata società terrena, ed hanno inoltre sostituito le tre attività fondamentali di lavoro, opera e azione, o con quelle di vita materiale (male necessario) e di vita contemplativa (bene verso il quale tendere), o con quelle di lavoro improduttivo (che non lascia traccia) e di lavoro produttivo (di beni).

Più dettagliatamente, le critiche della Arendt sono rivolte alla distinzione operata da Karl Marx (peculiare però, fa notare la Arendt, anche di Adam Smith) fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, ed il conseguente disprezzo per quest’ultimo. Il lavoro improduttivo viene infatti considerato da Marx (e da Smith) come un’attività che non introduce nulla nel mondo, non contribuendo, pertanto, ad arricchirlo e migliorarlo. Ora, per la Arendt, quelle che Marx definisce come lavoro produttivo e lavoro improduttivo non sono altro che le categorie (proprie della condizione umana) di lavoro ed opera. Ci troviamo così, dalla prospettiva arendtiana, in presenza di un duplice errore marxiano: il primo consiste nella mancata comprensione dell’importanza della categoria, all’interno della condizione umana, di lavoro (definito da Marx come lavoro improduttivo) come fattore per la cura ed il mantenimento della vita biologica; il secondo, nell’avere assorbito la categoria di opera all’interno del concetto di lavoro (segnatamente in quello produttivo, ma ciò che conta è la riduzione dell’opera al lavoro), facendo così cadere le differenze tra il lavoro e l’opera. Infatti


sia Smith sia Marx convenivano con l’opinione pubblica moderna nel disprezzare il lavoro improduttivo come parassitario, in effetti una specie di perversione del lavoro, come se non fosse degno del nome di lavoro se non un’attività che arricchisce il mondo […] (ed i “servi domestici” non lo arricchiscono di certo) Tuttavia erano proprio questi servi domestici, questi oiketai o familiares, che lavoravano per la mera sussistenza, necessari per il consumo ozioso piuttosto che per la produzione, che tutte le epoche precedenti alla moderna avevano in mente quando identificavano la condizione del lavoro con la schiavitù […] la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo contiene, benché in modo distorto, la distinzione più fondamentale fra lavoro e opera(8)


Oltre a ciò, prosegue la Arendt, è contraddittorio in Marx il fatto che la libertà, alla quale il telos insito nella storia del genere umano tende, sia descritta come emancipazione dal lavoro, laddove però quest’ultimo è inteso come eterna necessità imposta dalla natura, sicché «Siamo lasciati nell’alternativa piuttosto angosciosa fra schiavitù produttiva e libertà improduttiva»(9). Tale contraddizione origina dalla riduzione dell’opera al lavoro, che priva gli uomini del senso della produttività inerente all’opera: in Marx, il lavoro (che ha del tutto assorbito la categoria di opera) consiste nella messa in pratica della forza lavoro, la quale è finalizzata esclusivamente alla produzione di ciò che sottende al mantenimento della vita biologica, a differenza della produttività dell’opera che introduce nel mondo oggetti artificiali, indipendenti dalle funzioni, di competenza del lavoro, di mantenimento della vita biologica.

Ridurre l’opera al lavoro significa, altresì, perdere le differenze tra la figura dell’homo faber e quella dell’animal laborans. Il primo è, infatti, colui che letteralmente opera, fabbricando con le proprie mani: «l’infinita varietà delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale dell’uomo»(10), oggetti caratterizzati dall’elemento della durevolezza e per produrre i quali egli usa violenza alla natura, utilizzandola come materiale per le proprie fabbricazioni, comportandosi così come il “prometeico” (poiché la sua produttività implica la distruzione di parte della natura) signore e padrone della Terra, nonché delle proprie opere: esse hanno sempre un inizio ed una fine definiti e prevedibili sicché, una volta concluso il processo di fabbricazione, sono a sua disposizione; il secondo è, invece, colui che propriamente lavora, (ri)producendo con il proprio corpo la vita, rimanendo pertanto asservito alla natura, alle necessità, senza inizio né fine, della propria vita. L’homo faber è dunque un “fabbricante di strumenti” che poi l’animal laborans usa per lavorare, in altre parole, se il fine ultimo dell’homo faber consiste nella progettazione ed invenzione di strumenti, quello dell’animal laborans risiede nella (ri)produzione della vita, attraverso il consumo dei prodotti del lavoro (che, in quanto tale, si differenzia qualitativamente dall’uso delle opere fabbricate).
Tuttavia, nell’epoca moderna giunge ad una totale (e definitiva?) affermazione quel principio che il cristianesimo aveva introdotto nel mondo antico: la vita come bene supremo. Assunto che, pur essendo di origine cristiana, è sopravvissuto, nella modernità, alla secolarizzazione ed al declino della fede, venendo così applicato non nei confronti dell’immortalità della vita, ma in una prospettiva, immanente, di mantenimento della vita biologica, individuale (ciascun uomo) e collettiva (specie umana):

In ultima analisi, è sempre la vita il punto di riferimento supremo, e gli interessi dell’individuo come quelli del genere umano sono sempre identificati con la vita individuale o con la vita della specie come se fosse scontato che la vita è il bene più alto(11)


Ne consegue che il fabbricare dell’homo faber non viene più inteso come un modo per produrre cose e dominare la natura, bensì come un processo lavorativo finalizzato unicamente alla produzione di ciò che deve essere consumato, per garantire la sopravvivenza dell’uomo, sicché non un generico concetto di lavoro, ma questa specifica concezione del lavoro diventa dominante nella modernità.


L’emancipazione del lavoro non ha dato luogo all’eguaglianza di questa attività con le altre della vita activa, ma al suo quasi indiscusso predominio. Dal punto di vista del “lavorare per vivere”, ogni attività non connessa al lavoro diventa un “hobby
(12)

Fa così la sua comparsa quella moderna figura antropologica a proposito della quale si può dire che

il tempo dell’animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci e insaziabili sono i suoi appetiti. Che questi appetiti divengano più raffinati – così che il consumo non è più limitato alle cose necessarie, ma si estende soprattutto a quelle superflue – non muta il carattere di questa società, ma nasconde il grave pericolo che nessun oggetto del mondo sia protetto dal consumo e dall’annullamento attraverso il consumo(13)

Si impone così nella modernità quella dinamica, tipica dell’animal laborans, di (ri)produzione (soggetta a criteri di efficienza e funzionalità) e consumo (sfruttamento dell’esistente), che reca in sé i germi, sottoforma di condizioni di possibilità, della mentalità totalitaria. L’homo faber è infatti in grado di dare luogo ad uno spazio pubblico, seppure non di carattere politico ma commerciale: il mercato di scambio come luogo d’esposizione delle merci e della loro fabbricazione; diversamente, l’animal laborans risulta essere del tutto privo di un qualsiasi spazio pubblico, la cui assenza è, per la Arendt, la pre-condizione di ogni sistema totalitario.

In Le origini del totalitarismo la Arendt ripercorre quel processo che, in termini storici, ha condotto alle dittature europee ed alla seconda guerra mondiale e, in termini filosofici, allo svilimento dell’agire politico. I momenti decisivi di tale processo sono individuati nell’antisemitismo (derivante dal crollo degli Stati nazionali successivo alle due guerre mondiali che provocò la comparsa di “apolidi” senza nazione, senza cittadinanza e, per questo, senza diritti umani; inoltre, durante la metà del Novecento, tale questione si è aggravata a causa di divisioni geografiche effettuate per interessi politici e non tenenti conto dei vari gruppi etnici, cosicché «Per gruppi sempre più numerosi di persone cessarono improvvisamente di aver valore le norme del mondo circostante»(14)), nell’imperialismo («che aveva imposto il suo dominio sul pianeta grazie a un articolato sistema di stati nazionali al di fuori dei quali i diritti dell’uomo avevano perso ogni valore»(15)) e nella trasformazione plebiscitaria delle democrazie occidentali (nelle quali è ormai presente «L’identificazione del diritto con l’utile»(16), con il pericolo che ciò che risulta “utile” per la maggioranza può non esserlo per le minoranze che rimangono così escluse dalla formazione di un mondo-con-gli-altri).

Uno dei primi effetti della complessiva spoliticizzazione (rispetto al modello ideale dell’Atene periclea) della modernità è quello della perdita, per determinate categorie di persone, dei diritti umani (intesi come la possibilità di agire e pensare), per recuperare i quali è necessario comprendere come essi non siano basati su motivazioni naturalistiche, storiche, religiose, politiche o utilitaristiche, ma si fondino unicamente in una dimensione decisionale e collettivamente partecipativa alla creazione del mondo, infatti


Non si nasce eguali; si diventa eguali come membri di un gruppo in virtù della decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti. La nostra vita politica si basa sul presupposto che possiamo instaurare l’eguaglianza attraverso l’organizzazione, perché l’uomo può trasformare il mondo e crearne uno di comune, insieme coi suoi pari e soltanto con essi(17)

E’ a seguito di queste riflessioni che la Arendt caratterizza il totalitarismo come la negazione della realtà effettiva per farla combaciare con un’ideologia, pertanto come una possibilità sempre presente in ogni piega del quotidiano. Tale male assoluto rappresenta un fenomeno del tutto nuovo, e quindi incomparabile alle precedenti e conosciute forme di regime autoritario: esso rappresenta la cristallizzazione non necessaria delle contraddizioni dell’epoca moderna. Di conseguenza il modello totalitario moderno possiede delle caratteristiche peculiari, che la Arendt riconosce nella cieca fiducia e obbedienza nei confronti del capo, nell’uso della violenza fisica e del terrore (per inibire le relazioni sociali e favorire l’atomizzazione delle masse), nell’esaltazione di una ideologia (veicolata con lo strumento della propaganda), nella presenza di un partito unico (strutturato con una forma gerarchica paramilitare, cosicché gli incarichi istituzionali vanno di pari passo con la carriera militare), nella esplicita subordinazione delle relazioni affettive alla cosiddetta “ragion di Stato” (al fine di annullare qualsiasi vincolo sociale che possa incrinare la totale fedeltà al regime), e nell’intolleranza verso qualsiasi forma di opposizione al punto di eliminare i dissidenti piuttosto che albergarli all’interno della società (è interessante notare che tale eliminazione avviene solo dopo che ai dissenzienti sia stato sottratto il loro status di cittadini, e dunque di soggetti politici, privandoli dei diritti umani ad esso correlati: «In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il loro diritto alla vita»(18)). All’interno di tale caratterizzazione del totalitarismo ricadono sia il nazismo che il comunismo, ed il “campo di stermino”, come luogo di sospensione dei diritti umani e di destrutturazione dell’uomo, ne diventa la metafora più emblematica(19).

Probabilmente, fra i suddetti elementi, il più interessante che la Arendt individua nei totalitarismi novecenteschi è quello dell’ideologia. Essa consiste in un meccanismo razionale che, a partire da premesse “dogmatiche”, deduce conseguenze logiche, il suo scopo è quello di sostituirsi alla realtà effettiva, per ottenerlo ha bisogno, oltre che di un determinato uso del terrore e di una efficiente propaganda, di inibire la capacità di pensare e per inibirla inchioda il pensiero stesso agli stringenti vincoli del ragionamento logico: il pensiero è ridotto a calcolo; a tal fine nulla cambia se l’ideologia si richiama a delle presunte leggi della Natura, come il nazionalsocialismo, o della Storia, come lo stalinismo. L’ideologia, insomma, designa una sorta di “metafisica totalitaria” e descrive il totalitarismo come una vera e propria categoria concettuale, all’interno di un’opera (quella arendtiana) che lo ha invece prevalentemente descritto come una esperienza storica, affondante le sue radici nella degenerazione della vita pubblica(20).

Ecco perché, nell’interpretazione arendtiana il totalitarismo appare non solo e non tanto come una categoria filosofica, quanto piuttosto come un determinato evento storico-politico, caratterizzato da un preciso contesto d’origine e momenti di sviluppo, in altre parole, la Arendt attribuisce al totalitarismo un significato riconducibile «a uno sviluppo storico definito e storicamente ricostruibile (i cui elementi originari, sociali e politici risalgono alle fine del XVIII secolo)»(21). Se quindi da un lato si può osservare la carenza filosofica di tale approccio, dall’altro si devono però evidenziare la nitidezza e la puntualità con le quali è stato sviscerato fin nei minimi particolari, un male che ha afflitto l’Europa nella prima metà del Novecento; tuttavia, a mio avviso, solo nella comprensione della sua essenza, piuttosto che delle sue peculiari manifestazioni storiche, risiede la possibilità di evitarne un nuovo (per forme e condizioni) ritorno.

1) Cfr. H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1991, e, per un’introduzione generale, biografica e filosofica, E. Young-Bruhel, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1990, S. Forti (cura), Hannah Arendt, Mondadori, Milano 1999, J. Kristeva, Hannah Arendt: la vita, le parole, Donzelli, Roma 2005, e S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Mondadori, Milano 2006.
2) Cfr. H. Arendt, “Il lavoro del nostro corpo e l’opera delle nostre mani”, in Ibidem.
3) Ibidem, p. 97.
4) Ibidem, pp. 128-129.

5) Per la Arendt, l’azione politica non abbisogna di una fondazione filosofica poiché la politica è essenzialmente condivisione di parole, discorsi e azioni fra i cittadini al fine di giungere alla più larga partecipazione possibile dei membri della comunità ai processi decisionali; questa concezione è stata criticata in almeno due aspetti da Jürgen Habermas, per il quale la politica necessita di una fondazione filosofica volta all’edificazione di una morale pubblica, e la Arendt rischia di ridurre in toto la politica al solo modello normativo della pòlis greca, come se quello fosse l’unico paradigma possibile di politica, cfr. J. Habermas, La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt, in «Comunità», n. 183, 1981, e R. Gatti, Pensare la democrazia, AVE, Roma 1989.

6) Per un’analisi dell’idea arendtiana di pòlis cfr. P. P. Portinaro, Hannah Arendt e l’utopia della «polis», in «Comunità», n. 183, 1981, D. Sternberger, Die versunkene Stadt, in Die Stadt als Urbild, Suhrkamp, Frankufurt a. M. 1985, A. Dal Lago, «Politeia» Tradizione e politica in Hannah Arendt, in Il politeismo moderno, Unicopli, Milano 1985, e AA. VV., Hannah Arendt tra filosofia e politica (Atti del Convegno di Messina del 25-26 Novembre 2004), Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.

7) Cfr. H. Arendt, Lo spazio pubblico e la sfera privata, in Vita activa, cit.

8) Ibidem, p. 62, parentesi mia; qui la Arendt non specifica se l’arricchimento del mondo sia da intendersi solamente in senso materiale od anche intellettuale, a mio avviso, in Marx la distinzione fra lavoro materiale ed intellettuale è applicabile sia al lavoro produttivo che a quello improduttivo, mentre nella Arendt l’opera è
da intendersi sempre e soltanto in senso materiale.
9) Ibidem, p. 74.

10) Ibidem, p. 97.

11) Ibidem, p. 232.

12) Ibidem, p. 91.

13) Ibidem, p. 94; Hans Jonas, che negli anni Venti segue con la Arendt i corsi di Martin Heidegger a Marburgo, concorda con tali posizioni della sua ex collega di studi in Handeln, Erkennen, Denken, in «Merkur», n. 341, 1976.

14) H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Torino 1999, p. 373.

15) E. Traverso, L’immagine dell’inferno, in E. Donaggio – D. Scalzo (cura), Sul male, Meltemi, Roma 2003, p. 30.

16) H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 414.

17) Ibidem, p. 417.

18) Ibidem, p. 409.

19) Il superamento di una simile forma di totalitarismo sembrerebbe risiedere in una prassi politica, per così dire, “movimentista”, cioè sganciata dalle ideologie e dai partiti. A proposito, poi, dell’equiparazione fra nazismo e comunismo (in particolare quello staliniano) si deve notare come l’analisi molto più storica che filosofica di tali movimenti, impedisca alla Arendt di cogliere che la tragicità del primo risiede nell’avere fedelmente realizzato le sue premesse teoriche mentre la drammaticità del secondo sta nell’avere abbondantemente tradito il proprio disegno teorico: «Certamente c’è una differenza importante tra i due movimenti: magari usavano gli stessi mezzi atroci e disumani, ma mentre nel nazismo erano ugualmente condannabili sia i mezzi sia i fini, invece nel comunismo lo erano i mezzi non i fini, spesso nobili (liberazione dall’oppressione dei rapporti di lavoro, pari dignità sociale dei cittadini)» F. Manni, Intervista a Norberto Bobbio: il filosofo e i comunisti, in «la Repubblica», 04/05/01.

20) Cfr. H. Arendt, Ideologia e terrore, in Le origini del totalitarismo, cit., capitolo ristampato in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, Einaudi, Torino 2004; cfr. inoltre, S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001.

21) A. Dal Lago, Introduzione, in H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, nota 67, p. 32.


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