martedì 17 marzo 2009

Othello, da Shakespeare a Verdi passando per Muti

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Lo scorso 6 Dicembre ho avuto l’opportunità di assistere alla prima dell’Otello diretto da Riccardo Muti presso il Teatro dell’Opera di Roma che, nonostante i tagli subiti a causa delle ultime disposizioni governative che riducono i finanziamenti per le infrastrutture e le attività culturali, riesce ancora ad offrire delle rappresentazioni di altissima qualità. L’aver assistito all’opera musicata da Giuseppe Verdi, su libretto di Arrigo Boito, e l’aver riletto la tragedia originale di William Shakespeare, ha suscitato in me delle osservazioni che mi fa piacere condividere con chiunque vi sia interessato.
Non intendo qui né riportare l’ennesimo riassunto della trama della tragedia, né proporre un’ulteriore interpretazione manualistica, ma solo mettere in questione alcuni aspetti che mi hanno personalmente e particolarmente colpito, ovvero: perché in un’opera nella quale nulla è lasciato al caso ed anche le virgole hanno un significato, l’autore (mi riferisco a quello originale) disegna un così particolare finale? Perché nessuno dei personaggi ottiene ciò che desidera? E perché Desdemona, non solo non ottiene ciò che desidera, ma addirittura trova la morte?

Nessuno dei personaggi ottiene ciò che desidera, si diceva, ed infatti, Roderigo, che desiderava impossessarsi del corpo di Desdemona, non lo ottiene, morendo sotto la spada di Cassio.

Cassio, che desiderava dedicarsi ai piaceri mondani della gola e della lussuria, viene investito della carica di Governatore (succedendo ad Otello), che lo costringerà ad un comportamento responsabile, limitando così le sue mondanità e quelle di Bianca, sua amante e femminile alter ego; da notare infatti che proprio l’uccisione di Roderigo per mano di Cassio simboleggia il passaggio dello stesso Cassio da una forma ad un’altra di schiavitù: dall’assoggettamento alla lussuria, incarnata da Roderigo, che Cassio allontana da sé uccidendolo, all’assoggettamento al potere, che riduce Cassio ad una funzione (quella di Governatore) dello stesso.

Jago, che desiderava impadronirsi del potere, perde anche quello che aveva in qualità di Alfiere di Otello, trascinando in rovina anche la moglie Emilia, suo corrispettivo femminile, invaghita anch’essa del potere, come dichiara quando, parlando con Desdemona di tradimento, o meglio, di prostituzione finalizzata al raggiungimento del potere, afferma, allibendo la stessa Desdemona: «Il mondo è una cosa enorme! E’ un grande compenso per un piccolo peccato! (…) Per Dio, certo che non farei una cosa del genere per un anello di poco prezzo o qualche pezza di lino o dei vestiti, delle gonne dei cappelli o altri miseri regali. Ma per essere padrona del mondo! Eh… Chi non farebbe cornuto il proprio marito per farlo diventare un re?» (Atto IV, scena III – Tragedia), dando quindi tacitamente per scontato che, poiché per chiunque, proprio marito compreso, la massima aspirazione della vita è quella di impossessarsi del potere, egli accetterebbe di buon grado di portare le corna, a patto che vi possa adagiare sopra una corona (da notare, inoltre, come l’alter ego femminile di Cassio – Bianca – sia raffigurata come sua amante, maschera idonea a rappresentare l’assoggettamento dei due alla lussuria, ed alle figure retoriche che ne derivano, mentre l’alter ego femminile di Jago – Emilia – sia raffigurata come sua moglie, veste adatta a rappresentare l’assoggettamento dei due al potere, ed alle figure istituzionali che ne derivano).

Otello, che desiderava essere riconosciuto nel presente e ricordato nel futuro come un valoroso combattente ed un integerrimo uomo di potere (Desdemona, infatti, per lui, non è altro che una funzione della sua immagine; per questo egli non può tollerare d’essere ingannato da lei: non per la delusione affettiva che ne ricaverebbe, ma per il danno che un simile gesto da parte di lei arrecherebbe alla sua pubblica reputazione; quando infatti sospetta d’essere ingannato da Desdemona, ciò che lo tormenta è che: «Della gloria d’Otello è questo il fin» (Atto II, scena V – Libretto) e non altro), è talmente calato nella funzione sociale che svolge da non essere più in grado di staccarsi dal personaggio che interpreta, adottandone le regole procedurali anche nella sua vita intima, al punto tale che, offuscato da Jago a proposito dell’onestà di Desdemona, anziché parlare di ciò con la propria moglie, opta per una strategia investigativa, come se stesse affrontando una problematica politica: «Pria del dubbio l’indagine, dopo il dubbio la prova, Dopo la prova (Otello ha le sue leggi supreme) Amore e gelosia vadan dispersi insieme» (Atto II, scena III – Libretto), e passerà ai posteri come un ingenuo omicida.

Desdemona, infine, che desiderava “semplicemente” amare ed essere amata da un essere umano con il quale generare un’intimità, un’affinità elettiva ineguagliabile da qualsiasi altra interazione umana, non solo non raggiunge tale risultato ma, ricercandolo, trova addirittura la morte.

Ma perché, in un’opera nella quale ogni virgola ha il suo specifico significato, accade che nessuno dei personaggi trovi ciò che cerca? A mio avviso si deve fare una distinzione fra tutti i personaggi, Desdemona esclusa, da un lato, e Desdemona, appunto, dall’altro.

Tutti i vari personaggi infatti, ad eccezione della protagonista femminile, condividono, pur nelle loro diversità, un tratto comune: tutti rivolgono il loro amore non a qualcuno ma a qualcosa. Roderigo, Cassio e Bianca, ai piaceri mondani; Jago ed Emilia, al potere; Otello al proprio prestigio sociale, alla propria immagine, dunque a se stesso, reificandosi, inevitabile conseguenza dell’egocentrismo, palesemente manifesta in quella già citata battuta nella quale Otello parla di se stesso in terza persona (come se uscisse da sé, e dall’esterno si guardasse come se fosse una cosa): “Otello ha le sue leggi supreme”. Sebbene nella vita raramente si verifichino degli esiti romanzeschi, come quelli descritti in un’opera d’arte, il contenuto che da queste vicende può trarsi è fin troppo manifesto: la felicità non è portata dall’amore verso qualcosa (né da quello verso se stessi, visto che esso ci porta ad auto-ridurci a cosa), materiale o immateriale che essa sia.

Ma Desdemona non è portatrice dello stesso distorto modo dì vivere l‘amore di tutti gli altri personaggi, essa infatti non ama qualcosa bensì qualcuno (Otello), eppure ciò non la mette al riparo da un esito tragico. Evidentemente, quella di amare non qualcosa ma qualcuno è solo una conditio sine qua non, una condizione necessaria ma non sufficiente per conquistare la felicità. Evidentemente, anche Desdemona ha commesso un errore nel suo modo di vivere l’amore; ma quale? Lo dice, divenendone consapevole quando ormai sarà troppo tardi, ella stessa: «(…) alla sua fama e al suo valore ho consacrato il mio cuore e la mia felicità» (Atto I, scena III – Tragedia), «Ed io t’amavo per le tue sventure» (Atto I, scena III – Libretto). Desdemona, dunque, è innamorata della fama, del valore e delle sventure di Otello, e non di Otello come essere umano; ella prova delle forti passioni nei confronti di un uomo così prestigioso, potente, valoroso e che ha saputo ovviare alle sfortune della vita, ma confonde queste passioni con l’amore, tutt’altro sentimento rispetto ad una qualsiasi altra passione, per quanto intensa essa sia. Per questo, quando prende consapevolezza di tutto ciò, non può incolpare nessun’altro che se stessa per la sua tragica fine (avendo confuso passioni di genere diverso per amore, ed essendosi così donata a chi non avrebbe dovuto donarsi): quando è infatti già irrimediabilmente agonizzante per essere stata soffocata da Otello, ed Emilia le chiede chi abbia commesso tale delitto, con l’ultimo filo di voce risponde: «Nessuno; io stessa» (Atto V, scena II – Tragedia; Atto IV, scena III – Libretto). E la sua morte è quella alla quale, seppur non fisicamente ma intellettualmente, moralmente ed emotivamente, ciascuno si consegna quando compie quel tipo di sbaglio emozionale, non riuscendo a decifrare lucidamente le proprie dinamiche emotive interiori.

La grande arte e l’alta cultura sono delle porte d’accesso alla nostra auto-comprensione, poiché descrivono le dinamiche e i temi portanti che erano, sono e sempre saranno presenti all’interno dell’animo umano e che, a differenza dell’andamento rettilineo dello sviluppo scientifico, si sono proposti, si ripropongono e sempre si riproporranno uguali a loro stessi là dove, in ogni tempo e sotto ogni clima, è presente un essere umano.


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